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lunedì 10 giugno 2013

I miei primi 30 anni di Virtus Roma (1967-1997)


Enrico Gilardi che, contro la Philips Milano, segna da metà campo e ci regala il supplementare in cui poi perdiamo di 10 punti, i movimenti alla moviola ma sempre a canestro di George Gervin, le mie lacrime di gioia nella hall di un albergo di Rimini durante una gita del secondo liceo con Polesello in tv che alza la Coppa Campioni, le tredici-quattordici finte consecutive di Lorenzon sotto canestro, la quasi sempre maledette pagine 231 di Televideo con la scritta "Aggiornamenti in tempo reale" lampeggiante, i tre canestri in faccia di Mahorn a Dawkins in una gara3 decisiva dei play-off, uno schiaccione rovesciato di Solfrini al Palatrussardi che zittisce l'infuocatissimo pubblico milanese, la difesa di Cooper che non fa mai toccare il pallone a Richardson negli ultimi tre minuti di una partita incredibile vinta contro la Knorr, le pistole, gli inchini e le smorfie di Davide, il gesto dell'ombrello di Pupi Premier contro tutto il Palaeur, Franco Lauro speaker della Virtus, l'applauso di ringraziamento alla stagione della Teorematour '94/'95 nella sua ultima apparizione al Palaeur, il secondo tempo di Phonola Roma-Glaxo Verona del '88/'89, il canestro da venti metri di Riccio Ragazzi contro Caserta, la pelata di Phil Hicks, la trasmissione radiofonica pomeridiana di Antonietta Baistrocchi, Scott May che rientra di corsa negli spogliatoi con il braccio rotto, le iniziative offensive di Clarence Kea, le attese davanti al cancello R, gli sfondamenti presi da Israel, l'inno de "Il Messaggero", gli storni criminali che volteggiano sopra al Palaeur, il tiro da tre di Donato Avenia sulla sirena che si spegne sul ferro e tiene in vita la Benetton, un pomeriggio irreale di fine estate a Mestre, le dimensioni artistiche dell'incommensurabile Vargas, l'ideazione di Coast to Coast, la prima uscita di CtC, i colori di CtC, i complimenti a CtC, gli amici di CtC, lo sguardo fiero di Henson in ogni circostanza, lo sguardo perso di Radja al cospetto della mole di Dawkins, i passaggi di Rautins, Sconochini che vince da solo una partita, scavalca i tabelloni pubblicitari e rivolto alla Brigata si batte il petto, Pero Skansi che fa allenare la Virtus il giorno di Natale, la fuga di Rovati, il parcheggio al Fungo, la retrocessione in A2 vissuta per radio da Reggio Calabria, la pagina di Televideo che annuncia "Con Corbelli Roma ritrova il basket di A-1", Eliseo Timò nella prima fila di parterre, Capone impazzito contro il Granada al Palazzetto, la zampata dall'angolo di Bertolotti contro il Barcellona a Ginevra, la classe cristallina di Mike Bantom, le ricezioni problematiche di Elvis Rolle, lo sconcerto seguito alla prima visione del cubo nel Palaeur, il rumore dei 13.000 spettatori contro la Buckler di due anni fa, i numeri di Brian Shaw, le incognite di Gary Plummer, le crisi di astinenza dei mesi estivi, i tiri liberi di Davide Croce, "Jump" dei Van Halen all'ingresso in campo del "Banco", lo striscione "Busca deve da gioca'", le tante trasferte perse di un punto con il viaggio di ritorno in religioso silenzio, le 475mila lire elargite annualmente al Messaggero per un posto accanto (se non dietro) a centinaia di biglietti-omaggio, gli airball da tre metri di Marco Ricci, le confezioni di caffé Splendid in omaggio all'ingresso, le accelerazioni incontenibili di Larry Wright...

Due numeri fa avevo promesso che vi avrei confessato cosa avesse significato la Virtus Roma per Giancarlo Migliola. Ecco qua.

Ho riflettuto a lungo sulla tecnica narrativa da utilizzare poi ho deciso di affidarmi esclusivamente al mio personalissimo flusso di ricordi, disordinato e sconnesso quanto volete nonché cronologicamente improbabile. Per quanto riguarda i riferimenti temporali, tenete presente che la mia memoria storica si accende con le piroette di Tomassi e si spegne con la camminata di Mario Boni. Se in questo momento siete dove siete, DOVETE per forza aver condiviso con me almeno uno di questi flash, magari insieme a tanti altri che il mio cervello residuo deve aver rimosso o accantonato. 30 anni per la Virtus, evidentemente, ma con l'ultimo blocco di memoria ancora disponibile.

domenica 3 febbraio 2013

Ciao, adorato Dido...

Era il 1987, avevo 20 anni, i capelli castani alla Scottie Pippen, 15 chili in meno e tante speranze in più in un mondo che fino a quel momento mi aveva fatto vincere, tra Italia, Roma e Bancoroma, un Mondiale, un Europeo, due scudetti, una Coppa dei Campioni e svariate Coppe Italia. A venti anni. Il 30 maggio 1984, la sera di Roma-Liverpool, si ruppe però l’incantesimo e seguirono anni complicati: nel 1987, quindi, l’esonero di Dido Guerrieri mi sembrò un’ingiustizia colossale, qualcosa a cui ribellarsi almeno formalmente. Da abbonato del Bancoroma da cinque anni, mi sentii di scrivere una lettera di protesta a Superbasket. Pochi giorni dopo squillò il telefono di casa, rispose mia madre che dopo pochi secondi richiamò la mia attenzione: “Gianca, è per te, un certo Dido Guerrieri”. Panico. Fu quello il mio primo contatto diretto col mondo del pallacanestro e oggi più che mai sono felice che sia accaduto con la persona che dopo 25 anni di vita e 8 di Superbasket ancora reputo il numero uno conosciuto in questo micro-cosmo. Con la sua voce cavernosa, Dido mi spiegò che voleva ringraziarmi per la lettera che gli era stata girata dalla redazione di SB. “Se volete, un giorno ci incontriamo in centro e facciamo colazione insieme”.

Fu così che dopo una settimana io e mia sorella Letizia lo incontrammo nella piazza del Pantheon. Lui rigorosamente in tuta, noi emozionati come se stessimo per incontrare il Papa, Bono Vox, Gandhi e Bruno Conti nello stesso momento. Il tempo di stringergli la mano e Dido fece subito in modo di allontanare l’imbarazzo rivolgendosi a me incarognito: “Tu oggi proprio di viola devi vestirti, eh?”. Della sua clamorosa scaramanzia avemmo poi modo di apprendere tutti i dettagli, perché a quell’incontro seguirono 4-5 cene al “Grappolo d’Oro”, ristorante adiacente a Ponte Milvio. Una sera, visto che ci era sempre impossibile pagare il conto, gli portammo una bottiglia di liquore pregiato. “Grazie, sono veramente commosso, peccato che sia astemio”… Dido rimase a vivere a Roma per qualche altro mese ma il suo rammarico per quell’esonero assurdo non lo abbandonò mai: ci raccontò tanti aneddoti vissuti in quella stagione e mezza trascorsa a Settebagni e noi lì, sempre divertiti, rapiti, emozionati dalle sue parole. Ci disse di quella volta che tutto lo Stato Maggiore della Banca di Roma andò a vedere un allenamento e alla fine chiese di parlare con lui. “Mister (!!!), io e mia moglie veniamo a vedere tutte le partite al Palaeur e ci divertiamo molto. Ho un solo appunto per Lei, secondo me tiriamo troppo poco da 3 punti”. Qualsiasi altro allenatore del mondo avrebbe annuito e ci sarebbe passato sopra. Non Dido. “Grazie mille, sa che anche io penso che Lei dovrebbe abbassare di mezzo punto il tasso di sconto”. Come a dire, ognuno resti nei propri ambiti di competenza, please.

Una sera Dido ci portò nella casa di Via dei Giochi Istmici che la Virtus gli aveva lasciato: ci fece accomodare sul divano, andò subito in un’altra stanza e quando ci raggiunse aveva in testa un cappello con un enorme fascio di corna, regalo di un allenatore dei Milwaukee Bucks. Io e Letizia non potemmo non notare i fogli di giornali attaccati sulle porte a vetro: Dido ci spiegò che nei mesi precedenti ci aveva sbattuto contro diverse volte prima di adottare quell’espediente. Genio…

L’anno successivo Dido firmò per Desio e io lo andai a trovare un paio di volte, avendo così la fortuna di conoscere anche sua moglie Fosca. Donna fantastica, perfetta per un uomo mai banale. Ricordo atterrito un viaggio dalla casa di Sesto San Giovanni alla palestra di allenamento fatto con una Panda bianca: Dido in modalità Mister Magoo, con partenze in salita improbabili e doppi cambi di corsia non segnalati da frecce. Dietro di noi e accanto a noi succedeva di tutto (incidenti, incendi, tamponamenti), Dido veniva insultato dal 95% degli altri frequentatori della tangenziale ma non si accorgeva di nulla e continuava a parlare di quanto gli mancasse Roma, chiedendomi poi se la curva Sud avesse ideato nel frattempo qualche altro coro “creativo” di quelli che gli piacevano tanto.

Per la cronaca, sul retro di quella miracolata Panda bianca era attaccato l’adesivo di Golden State, ovvero i “Warriors”, i Guerrieri. Da quel giorno, ovviamente, tifo per loro. Dopo la promozione in A1 ottenuta a Desio, Dido tornò a incantare Torino e io e Letizia tornammo a trovarlo in più occasioni: nel 1991 ci venne a portare i biglietti fuori dal Palaruffini e in quel momento arrivò il pullman del Messaggero ammantato di smeraldi. Erano gli anni del lusso eccessivo e sfrenato di Roma, Valerio Bianchini entrò nel parcheggio del palazzetto salutando Dido facendogli il segno della benedizione. Finì tanto a poco per loro e la cosa mi fece molto piacere: Dawkins umiliò Radja e poi sfiorò la scazzottata con Michael Cooper a centrocampo. L’approccio semplice e informale di Dido e della sua squadra avevano spazzato via la superbia del Messaggero, come non esserne felice? Da quando la famiglia Guerrieri ha iniziato a trascorrere sei mesi all’anno a Seattle, sono diminuite le occasioni per incontrarci ma i contatti, soprattutto con Fosca, sono rimasti cordiali e frequenti.

Ho visto Dido per l’ultima volta lo scorso anno, in occasione del suo ingresso nella Hall of Fame, e quella volta non sono riuscito a trattenere una lacrima nel vederlo su una sedia a rotelle e non più perfettamente cosciente. Di Dido mi restano tanti ricordi, tante lettere, tante foto e una citazione nel suo libro di cui vado sinceramente molto orgoglioso: penso che avrei adorato la sua umanità semplice anche se invece dell’allenatore di pallacanestro avesse fatto il cantante, il politico, l’attore. Quel suo modo scanzonato eppure così elegante e posato di leggere la vita e le persone, quell’attenzione al contenuto fregandosene spesso e volentieri della forma, quella capacità di distribuire vita, sorrisi ed emozioni con un gesto. Da venerdì non c’è più una persona della mia adorata famiglia allargata, un po’ come quando se n’è andato Lucio Dalla, un altro che nella mia formazione ha contato infinitamente più di qualche amico, di qualche professore, di qualche parente.
Ciao, adorato Dido…