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lunedì 30 gennaio 2012

Cose difficili da respirare, se non ci sai fare, se non puoi capire...

Qualche anno fa, su questo blog, mi divertii a buttar giù un elenco di cose mai fatte o provate nel corso della mia vita, per paura, pigrizia, scarso interesse, pudore, sfregio, tigna, ecc. Mi resi conto solo dopo aver compilato e poi letto quella lista di aver condotto una vita complessivamente pallosa ma l’aspetto più doloroso della vicenda è arrivato qualche giorno fa quando mi sono messo a pensare alle cose che ho iniziato ma non finito, a quelle che avrei potuto fare meglio, a quelle lasciate incompiute per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa (ci si batte il petto).

Non parlo tanto dell’Università, che in pratica non ho iniziato avendo dato un solo esame prima di partire per il servizio militare, ma di tutte le passioni avviate con grande entusiasmo e mai coltivate fino in fondo. Vivo di musica, essenzialmente, ma non ho mai pensato seriamente di imparare a suonare uno strumento e pure la splendida batteria elettronica della Yamaha acquistata anni fa in un momento di furore agonistico è praticamente rimasta sotto cellophane. La mia esistenza è scandita dal cinema ma non sono mai andato a fondo di una passione così vibrante, limitandomi invece a guardare centinaia di film al cinema e in dvd. Gioco con i videogames da decenni ma non ne ho mai finito uno e al calcio con la mia Nigeria prendo schiaffi sistematicamente da quando non ci sono più Babangida e Agali. Continuo a comprare decine di libri che poi puntualmente non ho tempo di leggere. Ho lavorato per dieci anni come programmatore e nonostante mi fosse stata affidata in gestione la procedura più strategica del Sistema ho fatto di tutto perché mi venisse sfilata. Non mi piaceva quel lavoro e infatti poi sono diventato giornalista ma tutti si sorprendevano all'epoca di come mi fossi fatto sfuggire quell'occasione colossale per fare carriera.

Sono stato (meravigliosamente) per sette anni a Superbasket ma ultimo nelle gerarchie sono arrivato e ultimo sono rimasto, come peraltro penso ancora oggi fosse giusto visto il valore dei miei colleghi. Ho giocato tanti anni a tennis, anche a livello agonistico, ma non ho mai pensato di fare un passo oltre anche se venivo accreditato di un discreto talento. Ecco, sto fatto del talento più che gratificarmi mi infastidisce: tre anni fa una persona che lavora nel mio ambiente mi ha riportato quanto uno dei giornalisti sportivi italiani più famosi gli aveva detto sul mio conto: «E’ uno molto bravo, gran bella testa, ma non mi spiego perché non abbia fatto carriera». Ecco, io in realtà non penso di essere così bravo ma so che se anche lo fossi certamente non arriverei mai al vertice della piramide. Mi manca la cattiveria necessaria, la dedizione assoluta, lo studio matto e disperatissimo, la metodica rigida e le emozioni tenute a freno: per me sul 30-0 il game è già vinto, se ho fatto pure una smorzata faccio la ruota del pavone e sticazzi del punteggio, se mi è capitato di scrivere un buon articolo ho piacere che lo legga chi mi vuole bene e non provo a rivendermi a chi conta realmente. Per me conta l’attimo, la gioia del momento, mi siedo, mi accontento, mi piace guardarmi attorno, sentire il calore di chi mi vuole bene.

Non ne faccio una questione di “captatio benevolentiae” latente o di incapacità di fare marketing di e con me stesso: è proprio un fatto di tenuta mentale e psicofisica, di forza di volontà mista a cinismo che ti fa puntare un obiettivo e poi ti ci porta quasi per inerzia. Io non sono così: io campo sull’ultimo minuto, sul rimpallo favorevole, esco sul cordolo all’ultima curva in derapage, studio 300 pagine la notte prima dell’esame, metto dentro sette attaccanti sull’ultimo calcio d’angolo perché fino a quel momento ho pensato ad altro, mi preparo per uscire sette minuti prima dell'appuntamento.

Se non esistesse l’ultimo minuto, io di fatto non esisterei.

Ho sempre sorriso negli anni scorsi ripensando a questa mia veste “romantica” e tutt’altro che pragmatica, controcorrente e per questo ancora più apprezzabile in questo momento storico: ora che però ho la sensazione di aver applicato spesso questa mia “sufficienza” anche alla sfera affettiva della mia vita so di averla combinata grossa. Amori, amici, conoscenze, colleghi, parenti, tutti vanno coltivati e innaffiati giorno per giorno, meticolosamente, altrimenti anche in quel caso rischi di vanificare il talento, e in questo caso l’affetto, che ti è stato dato in bonus. Non mi sento un fallito, credo ci sia ancora tempo per rimediare, ma un po’ una merda sì. E’ l’approssimazione che mi frega, alla fine, ma l’autocoscienza dei propri limiti rappresenta già una buona base di partenza per chi vuole svoltare.
Diventerò un ometto, promesso, datemi solo un po' di tempo per crescere...

mercoledì 18 gennaio 2012

Vita di palestra, altro che Palestra di Vita...

Ci sto provando, per la quarta o quinta volta in vita mia, giuro che ci sto provando un’altra volta. Da qualche mese mi sono iscritto nuovamente a una palestra o meglio, per attutire il trauma, invece di versare una retta mensile ho scelto di pagare “a entrata”.

Significa che ogni volta che varco l’ingresso “lasciando ogni speranza”, la mia chiavetta si alleggerisce di otto euro, più o meno quelli che vorrei mi fossero devoluti in cambio del mio sacrificio. Il fatto è che a me piace tanto correre e per correre d’inverno a Faenza bisogna avere tanto coraggio. Troppo, nel caso di uno che ha freddo solo a sentirne parlare. Così, vado in palestra, ogni tanto, per bruciare calorie e ritrovare una parte di me stesso attraverso una forma improvvisata di meditazione. E sì perché io in palestra, che sia Roma, Bologna, Milano o Faenza, non parlo. La modalità Silenziosa inizialmente non è stata una scelta e anzi ricordo che soprattutto nella palestra di Casalecchio avevo provato a stabilire uno straccio di rapporto umano con gli altri avventori.

Fu un rientro anticipato nello spogliatoio a segnarmi, temo per il resto dei miei giorni: “Quando esco con una la prima sera metto subito le cose in chiaro: ingoio e culo, sennò non se ne fa niente”, disse lui con marcata calata bolognese. Il tipo mi guardò in cerca di conferme, che io non potei dargli. In realtà io la prima sera mi ritenevo soddisfatto quando capivo che ce ne sarebbe stata una seconda. L’altro tipo, nella stessa sessione di improvvisato brainstorming nella quale mi ero cacciato avviando un discorso sul basket, provò a vendermi una quindicina di chili di proteine contenute in un fustino da detersivo: in quel momento ho realizzato che la mia insofferenza alla palestra si sarebbe acuita e non smorzata, se avessi provato a socializzare. Non mi sento né migliore, né peggiore di chi decide di trascorrere un paio d’ore al giorno in una palestra, davvero. Mi sento solo diverso, consapevole fino in fondo però di essere “mosca bianca”.

In genere gli 8 euro li spendo correndo sui tapis-roulant e pedalando in cyclette di ultima generazione, di quelle che in tempo reale ti informano rispetto alle calorie consumate, i metri percorsi, la velocità media, il tempo rimanente, la temperatura dell’olio e la pressione delle gomme. Troppe informazioni, tutte insieme, per la testa di uno che sta provando a sopravvivere. Il tempo, però, non passa mai. Mai. Neanche se mentre corro penso alle cose più assurde (solo nell’ultima settimana, tecnica di estrazione della radice quadrata di un numero, filmografia completa di Valerio Mastandrea, numero e nome delle donne baciate nei precedenti 44 anni), neanche se mi concentro ad osservare movenze felpate e sguardi ammiccanti delle ragazze/donne presenti (“le donne in palestra, guardarle fisse”). Di mattina l’età media è intorno ai 76-77 e in quell’atmosfera morbida da ginnastica dolce mi trovo più a mio agio rispetto al mix tra un rave e una sfilata di moda che mi circonda a partire dalle 18.00. Ai pesi mi avvicino con sospetto ma devo riconoscere, per onestà intellettuale, che i benefici sono evidenti sui corpi scolpiti di chi si abbandona per quarti d’ora interi a quelle macchine infernali.

Io invece me ne sto lì, per conto mio, nel silenzio tipico del pesce fuor d’acqua che sa di essere osservato. Vuoi per l’abbigliamento improbabile anche solo per l’accostamento cromatico, vuoi per i 44 anni che mi spingono leggermente fuori target, vuoi per l’abbigliamento “Italia Basketball” che non rende giustizia alle mie attuali condizioni fisiche, vuoi perché è raro vedere uno che entra, pedala, corre, non caga nessuno e se ne va. Otto euro mi costa tutto questo e quando esco dalla palestra, ritrovato il sorriso del reduce del Vietnam che sa di aver fatto fino in fondo il proprio dovere, non capisco mai quale sia stata la fatica più grande: se quella di perdere peso o quella di rimanere non contagiato da un pianeta (proteine limitrofe al doping, splendidi perizomi da uomo, barrette energetiche, diete a zona, beveroni improbabili, specchi consumati, ecc.) che per quanto mi riguarda temo rimarrà inesplorato.

Senza rancore, eh…