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sabato 10 dicembre 2011

Viale Marconi, "City Island" al contrario!

Pur essendo nato (mio malgrado) a Terni, per quasi 40 anni ho vissuto in via Colossi, Roma. Quando penso a casa mia, insomma, anche se la provincia di nascita è TR e quella di residenza BO penso a Colossi Street 20, ovvero a un palazzo del Vaticano biancorosso tanto maestoso quanto orripilante che affaccia sulla Basilica di San Paolo. E sì perché via Colossi, trascurabile viuzza a senso unico che fa da collante tra Viale Marconi e Via Ostiense, va inquadrata proprio nel quartiere San Paolo di cui sopra.

San Paolo è uno di quei posti di frontiera che ti concedono un margine piuttosto ampio di creatività, quando qualcuno ti domanda “Ah, San Paolo… sì, ma dove rimane di preciso?”. Devo confessare di aver sempre risposto “Roma Sud, vicino all’Eur, un passo da Testaccio” mentre in realtà la dura verità è che confiniamo con la Magliana della famigerata Banda da una parte e con la Garbatella dei Cesaroni dall’altra. Un po’ come Aldo, Giovanni e Giacomo quando parlano di “progettare strumenti di precisione, basculanti, roteanti“ mentre sono impiegati al “Paradiso della Brugola”.

San Paolo è un quartiere modesto ma complessivamente più vivibile di molti altri di questa assurda città: il fiore all’occhiello è l’imponente Basilica bizantina, meta fissa dei giri turistici stranieri ma complessivamente sottovalutata da romani e italiani rispetto alla sua maestosa bellezza. All’interno ci sono i ritratti di tutti i Papi a partire da San Pietro, la leggenda narra che la fine del mondo arriverà proprio il giorno che non ci saranno più cornici disponibili: ipotesi tutto sommato poco piacevole ma che sentivo di scongiurare quando ero bambino visto che gli slot disponibili erano 13. Ricordo che i 33 giorni di pontificato di Papa Luciani mi avevano un po’ irritato, a tal proposito, ma poi ci ha pensato Karol a ristabilire le cose...

Alla Basilica di San Paolo una volta all’anno viene in visita il Pontefice: ricordo ancora con lucidità mista a sconcerto il commento di Vittorio all’uscita della Messa di Mezzanotte di due anni fa, dopo circa 125 minuti di cerimonia (tempo effettivo, Offertorio escluso) tutta celebrata e cantata in latino: “Poi dice che uno diventa musulmano e se va a fa esplode al Gianicolo…”.

San Paolo da qualche anno, approfittando anche della mia assenza, sta cambiando pelle: licei e scuole medie hanno lasciato spazio al terzo polo universitario e di conseguenza copisterie, pizzerie, kebabbari e pub hanno preso il posto di fornai, vini e oli, profumerie e calzolai. Non una brutta evoluzione, tutto sommato, ma se venite dalle mie parti e volete fare shopping vi resta una sola opportunità credibile: VIALE MARCONI! Viale Marconi per noi di San Paolo è una sorta di “City Island” al contrario (“ogni città ha bisogno di un’isola di pace”, lo dice Andy Garcia all’inizio del film).


Viale Marconi esemplifica al meglio il concetto di caos: la fila delle macchine in coda è eterna, l’unica regola amministrata dai vigili quanto ai parcheggi è “basta che ce passi”, la doppia fila sistematica, il suono assordante di clacson e sirene una tradizione popolare che si riverbera giorno dopo giorno come per magia. Non a caso, sul ponte del traghetto che nel 2003 stava portando me, Bebbo e Vittorio all’interno del Circolo Polare Artico, totalmente persi e immersi in una natura dalla bellezza commovente, “Viale Marconi” fu il primo riferimento (tra un respiro profondo e l’altro) delle negatività che intendevamo espellere attraverso quell’improvvisata tipologia di meditazione. Per la cronaca, le altre forme di stress da allontanare dalle nostre esistenze erano state individuate ne “la Lazio”, “Capezzone” e “I Pooh”.

In ogni caso, non c’è un cazzo da fare, se vuoi andare per negozi ti devi abbandonare a Viale Marconi e per arrivarci da San Paolo non puoi esimerti dal passare sopra Ponte Marconi: argini appena accennati, sotto a quel Ponte negli anni ho visto alternarsi diverse colonie di nomadi (…oddio, nomadi fino a quando piazzavano le roulotte sotto casa nostra), inspiegabili cavalli allo stato brado, orde di cani randagi, barboni consapevoli se non orgogliosi di essere andati a vivere sotto un ponte. Gli unici a non essersi mai mossi sono stati i topi, vera memoria storica del Tevere, sempre più impressionanti per numero, dimensioni e prodotto interno lordo. Superati un paio di benzinai e due concessionari messi lì solo per riscaldare l’atmosfera, la giostra dei negozi di abbigliamento è destinata a dominare il campo.

Viale Marconi non tradisce, va detto: non tornerai a casa col tailleur per cui hai perso gli occhi a via Montenapoleone ma neanche con la tuta acetata 100% poliestere ignifugo “made in Botswana”. Ci sono un paio di Roma Store che non fanno mai male, una decina di pizzerie al taglio (vero simbolo della superiorità culturale del Sud Italia sul Nord, dove le pizzerie latitano, sono chiamate “da asporto” e vendono la pizza al pezzo, non a quantità. Vergogna!), 3-4 negozi di elettronica e quando arrivi in fondo a Piazzale della Radio che introduce a Trastevere/Monteverde, è la gelateria Ping Pong (ribattezzata Tennis Tavolo da uno dei miei amici più attenti all’uso corretto della lingua italiana) a segnare l’inversione di marcia.

La lunghezza di Viale Marconi è variabile, in teoria il Ponte e “Tennis Tavolo” non sono distanti più di un chilometro ma dipende tutto da quanta fretta avete e soprattutto dal tempo che siete intenzionati a buttare. Le costanti, invece, sono due: 1. a Viale Marconi certamente sei condannato a incontrare almeno un ex compagno di liceo, uno di quelli che non vedi da 25 anni e con cui non avevi nulla da dire neanche quando lo vedevi tutti i giorni in classe. L’imbarazzo regna sovrano, in quel caso, a meno che la reciproca (finta), tacita distrazione seguita all'incrocio di sguardi non abbia evitato il peggio.


2. A viale Marconi, se cerchi qualcosa, lo trovi e lo compri. Lo shopping è tendenzialmente nazional-popolare per non dire a forte connotazione coatta e per questo gli indigeni qualche anno fa hanno preso come un mezzo affronto l’apertura di un maxi Feltrinelli proprio nel cuore di Viale Marconi, tra una jeanseria “Tutto a 7.90” e il Mago della Pizza. Dopo qualche giorno di diffidenza davanti alle vetrine, però, la cultura ha trionfato e ora, incredibile ma vero, ti può capitare di varcare il Ponte anche con un libro in mano. E se piace anche ai topi, che spesso lì fanno dogana, hai persino la possibilità di portartelo a casa. Mistero della fede…

lunedì 5 dicembre 2011

Seppia, 25 chili neri di amore puro

Se per quasi due anni questo blog è rimasto silente, tutta la colpa va addossata a un essere nero che a oggi conta quasi 30 chili e due occhioni irresistibili da spot del WWF.


L’animale in questione si chiama Seppia ed è stata adottata nell’ottobre 2009 da me e Beatrice, prelevata dal canile di Furbara dove si apprestava a condurre un’esistenza infelice. Da quando quei due occhi sono entrati nel mio campo visivo, la vita è cambiata: Seppia è stata abbandonata in Sicilia appena nata e poi ritrovata in un cassonetto, dentro una busta di cellophane, insieme a due suoi fratellini. Misteriosamente è poi arrivata in un canile del Lazio, dopo un viaggio in treno che sinceramente preferisco non immaginare.



Quando ho preso Seppia al canile, l’ho scelta perché mi era sembrata il cucciolo più impaurito o forse il più bisognoso di sostegno: nelle quattro ore di viaggio in macchina fino a Faenza, le prime insieme, Seppia non diede alcun segno di vita e arrivati a destinazione fu un problema farla uscire dal trasportino.

Così come fu angosciante vederla terrorizzata e immobile nelle prime tre ore trascorse in quella che sarebbe diventata la sua nuova casa. Andò a bere, timidamente, solo quando noi andammo a dormire e spegnemmo la luce. Abbiamo capito immediatamente che accudire Seppia non sarebbe stato semplice, il giorno dopo la prima passeggiata a Cesenatico ci confermò l’impressione. Seppia scappava da tutto e tutti, cercava rifugi dietro ai vasi, angosciata da qualsiasi forma di contatto le venisse proposta.

Fortunatamente, dopo qualche giorno Seppia ha iniziato a fidarsi di me e di Beatrice, a farci le feste ogni volta che ci vedeva tornare a casa, a legarsi a noi in maniera forte, esagerata, esclusiva. Per molti mesi, sbagliando, abbiamo deciso di proteggere Seppia dal resto del mondo, perché le sue paure verso il mondo esterno erano diventate le nostre e volevamo evitarle a tutti i costi altri traumi. Così evitavamo di avvicinarci ai cassonetti visto che lei si rifiutava, evitavamo situazioni pubbliche che potessero impaurirla, la riportavamo in macchina ogni volta che si mostrava timorosa di suoni, rumori e persone.

Detto questo, va precisato che stiamo parlando del cane meno aggressivo del pianeta: Seppia non conosce la cattiveria anche se l’ha subìta, lei non ce l’ha con nessuno e vuole solo essere lasciata in pace, meglio se insieme a me e a Beatrice. Lei sta bene solo insieme a noi e con tutti gli altri cani del pianeta, grandi, piccoli, maschi, femmine, randagi o di razza.

Seppia è cittadina del mondo, un po’ figlia dei fiori, grande amante dei ricci e delle tartarughe, che ama collezionare senza peraltro torcere loro un pelo (ammesso che ne abbiano), coda alta e molesta quando può scorrazzare in tranquillità. Lei ama correre a perdifiato per ore e ore, non risponde ai comandi dei suoi padroni se non quando le va, non è sensibile al richiamo del cibo come lo sono quasi tutti gli altri cani.

Da due anni a questa parte Seppia occupa gran parte delle nostre attenzioni, dei discorsi, delle preoccupazioni: sarebbe stato così anche se avessimo preso un cane dalla spiccata personalità, lo è molto di più per un cane nero che chiede protezione e affetto dopo aver pensato di morire in ognuno dei primi 90 assurdi giorni della sua vita.

Sento di essermi perso nella deriva, da me criticata in passato, di coloro che sorridono ai cani per strada, di quelli che si preoccupano anche per un cane notato per strada senza collare. Nei quindici giorni trascorsi in Cile la scorsa estate ho nutrito per 15 giorni Arturita, bastardina locale che mi aveva aperto il cuore dormendo tutte le notti fuori dal nostro albergo. Mi sono anche informato sulle procedure per estradarla ma poi ho capito che sarebbe stato più semplice riportare Battisti in Italia e ho lasciato perdere.

Detto questo, il cane santo e tutto nero che risponde (ma mica poi tanto) al nome di Seppia è il vero motivo per il quale questo blog non è stato più frequentato. Non perché quei 25 chili abbondanti bisognosi di amore non mi abbiano lasciato tempo a disposizione, quanto perché avrei voluto parlare di lei e non ho mai trovato le parole giuste per descrivere tanto splendore.


Non lo sono neanche queste, a dire la verità, ma dovevo in qualche modo uscire dal tunnel. Nero, anche lui, forse per questo mi ci ero affezionato...

Certi treni passano una volta sola, in Italia non è neanche detto

Negli ultimi sei mesi ho firmato un nuovo contratto di lavoro, mi sono fidanzato, sono andato a vivere in un’altra casa, ho adottato la magnifica Seppia dal canile di Furbara, venduto la moto e la Mini, preso una Citroen C3, cambiato numero di telefono dopo 14 anni.

A pensarci bene, non c’è più niente nella mia vita di quello che c’era a giugno e certo ho pensato che se uno avesse avuto un blog tutte queste cose avrebbe potuto raccontarle lì. Ecco perché in questo post che cancella mesi di vergognosa assenza vi parlerò delle Ferrovie dello Stato.

Per una questione di fuoco amico che ho cercato di evitare, in questi ultimi anni mi sono astenuto dallo scrivere qualcosa che avesse a che fare con le FS o se preferite con Trenitalia. Mia sorella, la primogenita che per comodità d’ora in poi chiameremo Letizia, è infatti quel che si suol dire un pezzo grosso di un’azienda che ha molto a che fare con le ex FS e oltre a telefonarle per insultarla per ogni incazzatura correlata all’argomento “treni” finora non ero andato. Finora. Ora però basta, Leti, mi spiace, ma se non altro questo post consideralo l’equivalente delle mie due telefonate mensili di insulti. Sarebbe oltremodo banale lamentarsi del pessimo servizio, dei ritardi pazzeschi, del tragico rapporto qualità/prezzo, di tutti i disservizi connessi alle FS ma credo che lo farò lo stesso.

Il rimborso

Da qualche settimana sono cambiate le regole e ora se il tuo Eurostar ritarda fino a 59 minuti non ti ridanno un centesimo: due anni fa invece ricevetti a casa un rimborso di circa 80 euro, per un Venezia-Roma infinito vissuto insieme ai miei genitori. Dopo qualche giorno andai alla stazione Termini per comprare un Roma-Bologna (circa 40 euro, all’epoca) e il bigliettaio velatamente romano mi spiegò a modo suo che non era possibile spezzare il rimborso e che quindi avrei perso gli altri 40 euro. Di fronte alle mie rimostranze (“quindi devo andare a Praga per pareggiare?”) lui si sentì di consigliarmi: “Ma vattene in prima, no? Almeno spendi di più”. Al che io chiusi: “No, guarda fammi direttamente un Roma-Kiev pure se non ci devo andare almeno non ci rimetto niente”. Comodo, no?

Il cambio prenotazione
Non provate mai a farlo, per nessun motivo. Mai. Tanto non ci riuscireste. Ogni volta che mi è capitato di dover cambiare treno, sia sul sito che “live”, sono stato respinto con perdite. La motivazione che ogni volta mi fa impazzire è quella che mi danno alla biglietteria: “Non posso rimborsarle il biglietto né cambiarlo perché lei ha pagato con la carta di credito”. E io che pensavo che in Italia fosse legale… Una volta ho fatto un biglietto da 9 euro sul sito, sempre con la truffa legalizzata del pagamento con carta di credito: cambiai idea mezzora dopo e tornai sul sito per cambiare. Mi fu chiaro in pochi minuti che il cambio era possibile solo per un treno dello stesso giorno, della stessa tratta e della stessa tipologia di treno. In pratica ti permettono di cambiare vagone, non molto di più. Decisi che quella volta 9 euro non glieli avrei regalati ma a quel punto assistetti al vero capolavoro: decurtati i 9 euro del 20% che ovviamente le FS si tengono per il disturbo (e ci mancherebbe pure…), il rimborso scendeva sotto la quota minima di 8 euro e non poteva essere erogato. Dei geni. Del male ma pur sempre dei geni.

I ritardi

Un paio di settimane fa mi è capitato di prendere il treno nei giorni in cui l’amministratore delegato di FS per tranquillizzare gli utenti li invitava a portare con sé, prima di salire sul treno, bevande, cibo, una tenda da campeggio, due cucine da viaggio, il cambio di stagione e un rosario. Nella foto a margine avete un’idea dell’entità dei ritardi accumulati quel giorno, nelle stazioni di Milano e Bologna ho assistito a scene che definirei meravigliose se non avessi letto il panico negli occhi di diverse persone. Gente che per disperazione prendeva il primo treno in movimento, che pure se doveva andare a Pescara partiva per Roma (“Intanto mi avvicino”): all’annuncio “al binario 2 è in arrivo l’intercity da Genova Brignole con 545 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio” si è levato l’applauso convinto della sala d’aspetto della stazione di Bologna. A Milano, la mattina dopo, mentre alle 6.30 stavo acquistando alla biglietteria elettronica il tagliando per tornare a casa, la doppiatrice di Heidi con voce ammiccante mi informava amabilmente che “il servizio è temporaneamente sospeso, ci scusiamo per il disagio”. Milano Centrale sarebbe rimasta bloccata per ore e certo che a quel punto sarebbe stato intelligente disinserire il messaggio automatico: “si ricorda ai gentili passeggeri che è vietato salire e scendere dai treni in movimento”. Vi giuro che li abbiamo cercati per due ore, disperatamente, ma niente. Treni in movimento non ce n’erano. E dire che da lontano mi era sembrata una stazione.

Lo so già. Prima o poi tirerò il freno a mano di un treno in movimento, attraverserò i binari a piedi, calpesterò la fatidica linea gialla, tirerò oggetti contundenti dal finestrino e farò la pipì su un sedile di prima classe. Scusandomi, però, per il disagio. Grazie, Letì.

Lost, portace n'altro litro...

Nell'ordine, questa estate, mi sono perso due paia di occhiali, uno di infradito, almeno una decina di euro e due magliette. Altre "perdite" le ho evitate solo perché chi mi stava accanto mi ha ricordato il portafogli lasciato sul bancone del bar o il mazzo di chiavi abbandonato sulla panchina. Mio padre soleva (esiste "soleva"?) dire "Sono fatto così e così resto, perché mi dicono che sono meraviglioso", del tutto inutili i nostri tentativi di convincerlo che la gente che lo incensava fosse sarcastica: sarcasmo o no, io sono davvero così sbadato e nella tendenza a perdere le cose probabilmente ci vedo anche un po' di arte, ovvero il ritratto dello scapigliato che non bada troppo alle cose terrene perché con la testa è sempre sulle nuvole. Cazzata.

L'alternativa è quello del rincoglionimento progressivo, ipotesi che temo mi sia più congeniale, ma d'altra parte ho accusato delle "perdite" con frequenza certamente superiore ai 28 giorni e anche quando ero più giovane oltre che un bel ragazzo (pure lui): nel 2000, pochi giorni dopo il mio trasferimento a Bologna, davanti alla stazione lasciai la Micra aperta col marsupio (giallo, neanche grigio) appoggiato sul cruscotto e mi allontanai tre minuti. Ne ritrovai ben due al ritorno e quando il carabiniere (romano) in Questura mi chiese lumi "Ma come? Sei de Roma e te vieni a fa' frega' tutto qua a Bologna" non potei che rispondere "Sì ma quando uno è stupido lo è a ogni latitudine".

Nel 1997, pochi minuti prima che io e Bebbo partissimo per New York mi accorsi di aver perso i biglietti aerei: mezz'ora di panico senza ritorno e un paio di infarti rientrati in extremis non furono sufficienti per ritrovare i tickets. Riuscimmo a partire solo perché a Fiumicino una tizia dell'Alitalia (santa donna) si impietosì e ce li stampò di nuovo. Costo dell'operazione, 70.000 lire più lo scetticismo integrato di Bebbo per tutto il resto del viaggio. Scetticismo peraltro legittimato al nostro arrivo a New York: dopo aver fatto la denuncia per i bagagli smarriti (ma in quel caso io non c'entravo nulla) un tipo ci corse dietro per tutto l'aeroporto con una busta in mano urlando "Mister Maigliolaaaa". Avevo appoggiato sul bancone i biglietti del viaggio di ritorno e lì erano rimasti (obbedendo, quindi, per un certo verso).

Tornando a questa estate, le infradito sono state risucchiate dalla corrente dell'Oceano Atlantico, la cui velocità nell'invadere la spiaggia per effetto della marea è stata da me clamorosamente sottovalutata. Di dove siano gli occhiali non ho la più pallida idea mentre le magliette credo siano rimaste in due alberghi, una a Barcellona e una a Valencia.

Mi perdo le cose ma anche le persone, insomma, e lo faccio con sinistra regolarità: probabilmente il disordine emotivo e affettivo che mi porto dentro (ma anche nelle zone limitrofe) non è svincolato da questo discorso, certo è che il talento per la dispersione è notevole e complicato da arginare.

Ho smarrito tante cose di valore in questi mesi di blog-letargo ma d'altra parte in questa estate ho ri-trovato l'amore. Il grande amore, non un grande amore. A quello starò certamente più attento perché sento che se lo dovessi perdere, perderei anche una parte importante di me. Cosa che a occhio e croce non voglio!

Riga: si lavora e si fatica...

In Lettonia c’ero già stato tre qualche anno fa, al seguito della Bipop, in un posto chiamato Ventspils: quando da Reggio Emilia arrivò l’invito in redazione i miei colleghi di Superbasket declinarono gentilmente, dopo essere stati ad Alicante, Amsterdam, Lione, ecc.. Io invece, giramondo quale sono, accettai con entusiasmo. Entusiasmo che dopo 3 ore di volo per Riga e altre 3 di pullman verso la nostra meta si attenuò progressivamente: seppi infatti, strada facendo, che Ventspils altro non era che il porto più utilizzato dall’ex Unione Sovietica per il trasporto di materiale chimico, uno sbocco sul mare strategico e che non a caso aveva provocato più di qualche tensione quando la Lettonia si dichiarò indipendente.

Ai chilometri e chilometri di containers contenenti materiale pericolosissimo, aggiungete che essendo gennaio inoltrato la temperatura stazionava intorno al -35 e il mare per i primi 100 metri era completamente ghiacciato. Aggiungete pure, se vi avanza posto, che in albergo ci fu prontamente consegnato un depliant multilingue in cui veniva indicato il punto di raccolta per la fuga tramite pullman nel caso in cui avessimo sentito il suono della sirena: anzi, di tre sirene perché i pericoli erano di differente natura e così i piazzali nei quali ritrovarsi.
Reggio Emilia perse malissimo, io provai a uscire una volta dall’albergo, sentii urlare da una finestra (“Italianoooooooo, mio amore, viene da me”) e tornai subito dentro. Spaventato. Alle 2 di notte ripartimmo per Riga, alle 6 volammo per Bologna, arrivai in redazione bello fresco verso le 11 giusto in tempo per ringraziare i miei colleghi dell’opportunità concessami.

In Lettonia sono tornato il 3 giugno, insieme alla Nazionale Femminile impegnata all’Europeo: per tre giorni a Priekuli, cittadina fantasma a 30 chilometri dalla più vicina nonché primitiva forma di vita: il secondo posto conquistato nel girone ci ha schiuso le porte di Riga ma non ci ha liberato del cibo spudoratamente speziato, patrimonio mondiale dell’Unesco per quel che riguarda la Lettonia.
Alloggiati nel centro della capitale in un albergo moderno e confortevole, ho avuto modo di appurare che il vero patrimonio della repubblica baltica in verità sarebbe un altro ma l’Unesco non lo può riconoscere perché rigorosamente a pagamento.

Basti pensare che nel mio frigobar alloggiavano, accanto a una bottiglia di acqua e a una di Coca Cola, due (neanche uno) profilattici pronti per l’uso: basti pensare che la hall dell’hotel era quotidianamente frequentata di donnine dall’aspetto non propriamente repellente pronte a intercettare un tuo sguardo per ribattere con un sorriso e subito dopo una cifra: c’è pure, va detto, chi è sceso nella hall alle 3 di notte per sperare in un (improbabile) sconto sul prezzo.
Come quelli chiesti al bancarellaro che sta per smontare. Sono uscito dal Latvija Hotel più e più volte, spesso da solo e sempre con sta benedetta scritta “Italia” stampata sul petto. Peggio del sangue per uno squalo, credetemi.

Prima sera, io e il coach mettiamo il naso fuori dall’albergo: un taxi sgomma, si avvicina, tira giù il finestrino e ci chiede: “Erotic massage?”. E noi: “Magari quattro passi ora, dopo ci pensiamo”. E’ stata anche l’unica volta in cui mi è stata rivolta la parola in una lingua che non fosse l’italiano, dagli (dalle) indigeni. Il giorno successivo più esplicito è stato lo “Scopiamo?” rivoltomi dalla sosia di Nina Moric prima che si deturpasse le labbra. Al mio sorriso di diniego l’aggiunta che lascia pensare: “Qui niente seghe, scopare e basta”. Evidentemente c’era stata una fuga di notizie, riguardo alla mia scarna vita sessuale nell’ultimo periodo (tipo gli ultimi 30 anni, tanto per intenderci). La sera prima di partire, il capolavoro, con le donnine anche un po’ incazzate per la scarsa adesione della comitiva italiana alle loro velate richieste: “Che facciamo?”, ha chiesto a me e un altro allenatore una bionda accompagnata da una mora mozzafiato. “Zona 1-3-1”, volevamo rispondere noi ma al nostro silenzio la mora di cui sopra ha aggiunto. “Trombare, dai, poca spesa e molta resa”. Un motto che meriterebbe un mese di stato su Facebook. Una notazione che dal punto di vista economico ci ha confortato pur non convincendoci riguardo all’acquisto della mercanzia. Della Lettonia, comunque, mi resta il ricordo di un popolo estremamente cordiale e disponibile (non nel senso che intendete voi…): l’immagine di una città molto bella e che del regime sovietico non conserva più nulla, neanche una triste scritta in cirillico. Anzi, una cosa la conserva, una memoria storica recente: i buchi sul muro della radio lettone, crivellata di colpi dai carrarmati sovietici nel 1991, dopo la proclamazione dell’indipendenza. A Mosca pare che non la presero benissimo. “Scopare”?

Il problema è la mira...

Fino ai 30 anni il mese di settembre accompagnava la mia depressione: erano le giornate inesorabilmente destinate ad accorciarsi a togliermi il sorriso dalle labbra, non le reminiscenze scolastiche che in quel periodo dell’anno si traducevano nel ritorno in cella. L’autunno era sempre fuori dal podio, eterna quarta nel medagliere delle stagioni preferite: i concetti di buio, di penombra, di oscurità non mi convincevano affatto perché mi trasmettevano l’idea di qualcosa che era finito. Anzi, che stava finendo, che è anche peggio.

Analogamente, quando scavallavo il 20 dicembre la consapevolezza che da lì in avanti saremmo andati in discesa quanto a lunghezza delle giornate mi faceva stare bene. Pure se il sole che tramontava alle 16.23 del 29 dicembre non è che scatenasse gioia di vivere. Sta di fatto che, in sintonia con i 9/10 del sentire planetario, il mio umore viaggiava direttamente proporzionale alla presenza del sole nella mia vita.

Da almeno 6-7 anni, però, in questa mia stessa vita sta succedendo qualcosa di veramente strano: la tanto agognata primavera l’accolgo con uno starnuto gigantesco, quello che certifica la mia allergia a ogni forma di vita del Pianeta Terra nel periodo che va da marzo a maggio. Tutto questa luce mi infastidisce, devo dire, così come fuggo dalle spiagge affollate, dai concerti oceanici, dagli aperitivi compulsivi, dalle occasioni mondane, dalla vita tanto vissuta, insomma.

Detto da un uomo di comunicazione, andrebbe confessato con meno orgoglio ma tant’è. Da prima che diventassi un crepuscolare 40enne ho preso a rivalutare il chiaroscuro, gli ambienti nei quali vedi e non vedi, le spiagge deserte a novembre con la pioggia battente, i toni di grigio che poi hanno preso il comando anche nella mia testa, le serate in cui il vento è fresco ma non freddo e neanche afoso: come se prima ascoltassi solo gli 883 e ora avessi preso ad ascoltare esclusivamente Cammariere (che poi messa così sarebbe certamente una qualità, la mia riconversione).

Sta di fatto che ora ottobre è il mese nel quale mi sento più a mio agio: tutta quella luce, quello sfavillio di colori, tutto quel movimento di cuori, di corpi, di lamiere si è placato e l’aria si lascia respirare, la gente è più tranquilla. Ci si diverte di meno, in giro, e questo aspetto mi genera meno ansia.

In una parola, riconsiderando quanto scritto finora, mi verrebbe da dire che si tratta di sintomi che sanciscono il mio precoce ingresso nella terza età. E’ questa l’ipotesi più probabile ma non voglio smettere di pensare che si tratti di fasi che vanno e che vengono, di momenti che la mia testa sempre in movimento elabora ora in modo diverso rispetto al vissuto. Non ho paura di vivere, insomma, ma forse è vero che i pori non sono più tutti spalancati. Oppure mi è solo calata la mira, come dice l’immenso Libero...

Ancora su Dieci...

Sono dovuti passare due anni prima che avessi voglia di raccontare i sei mesi più allucinanti della mia vita: mi riferisco a quelli vissuti a Milano da febbraio a giugno 2007, un periodo che (purtroppo) non dimenticherò mai e che oggi scendendo nella Stazione Centrale mi si è riaffacciato con discreta violenza.

La decisione di lasciare Bologna e una casa appena comprata non fu semplice ma a Superbasket le cose si stavano mettendo male e la proposta di Ivan (Zazzaroni) mi sembrò convincente, soprattutto dopo il primo colloquio a via Vitruvio (“si fidi di noi, siamo persone serie”, mi rassicurarono). Mi veniva affidata la responsabilità della sezione Varie, 24 delle 48 pagine totali di Dieci, e il progetto di dare vita a un quotidiano moderno, aggressivo, diretto, colorato, mi piaceva.

Bastò un colloquio per farmi firmare un contratto a tempo indeterminato da capo-servizio: il 20 febbraio mi trasferii a Milano, temporaneamente appoggiato in una casa dalle parti del Lorenteggio, con un autobus e due metro ero agilmente in redazione. L’appartamento faceva parte di un palazzone con 198 scale, probabilmente ero l’unico italiano dell’edificio, sicuramente l’unico incensurato: dopo due sere di malinconia tutta meneghina mi era già tutto chiaro, avevo fatto una cazzata perché non era quella la città dove avrei voluto vivere. Né la vita che avrei voluto vivere.

Mi feci forza pensando che due giorni non costituivano un lasso di tempo sufficiente per tracciare un bilancio, le cose migliorarono quando trovai un monolocale dislocato a 300 metri dalla redazione per la modica cifra di 800 euro mensili. Se non altro, entrando a Dieci alle 11 e uscendone tutti i giorni (TUTTI) alle 23.30 avevo casa a un passo: dove solitamente tornavo, accendevo la tv, mi facevo una camomilla con gli Oro Saiwa e andavo a dormire. La mattina dopo si ripartiva nuovamente, per un’edizione piuttosto squallida di “Ricomincio da capo”, senza Andie McDowell da far innamorare peraltro.

La zona era quella della stazione, il che si traduceva in prostitute (sessantacinquenni) 24h davanti al portone del mio palazzo, gente che amabilmente pisciava in strada e una frequentazione degna di uno primi film di Spike Lee, quelli incazzati. Pazzesco, se guardavo una negli occhi questa mi sorrideva e mi faceva la lingua: mi illusi di essere diventato irresistibile, poi capii che c’era una moneta da inserire nell’apposita feritoia.

Ho iniziato a detestare Milano ancora prima che il dramma professionale si compiesse, perché gli stress (parcheggio, traffico, confusione, file, ecc.) erano quelli tipici della grande città e allora tanto valeva vivermeli a Roma e non a Milano. Mi fu ancora più evidente che avevo fatto una cazzata, anche per i forsennati ritmi di vita del quotidiano ai quali non ero abituato, né volevo abituarmi. Dal 5 aprile in avanti la situazione precipitò: prima un bonifico arrivato sul conto senza un giustificativo ed emesso da una fantomatica Hopit di Roma, poi i primi ritardi nei pagamenti degli stipendi e l’inizio della fine.

I soldi ovviamente non sono mai arrivati (neanche ora che ho stravinto la causa),in compenso arrivarono una cinquantina di scuse tra le più disparate e fantasiose, un numero di CRO finto per convincerci a lavorare ancora, dilazioni di pagamento annunciate e mai onorate, quotidiane prese per il culo intervallate da fraterne rassicurazioni. Venne fuori che i soldi (…) per l’operazione Dieci non li aveva messi la famiglia Donati, con la quale avevo firmato il contratto, ma una finanziaria romana di nome Hopit, che faceva capo alla famiglia Caso. Il cui curriculum (altri giornali aperti e poi chiusi senza pagare nessuno, processi in corso in Romania per riciclaggio di denaro sporco) ci aprò gli occhi definitivamente: eravamo dentro a una truffa. D’altra parte gli elementi per capire che qualcosa non andava per il verso giusto c’erano, dal principio: un responsabile della pubblicità la cui età sorvolava intorno agli 80 anni e che un giorno alla mia domanda se avessero contattato la Nike mi rispose: “Ma perché, lei ha i numeri di telefono della Nike…?”. Lo stesso un giorno mi chiese se poteva avere dei biglietti omaggio per una partita ad ingresso gratuito. Zichichi, questo…

Ci erano state garantite 10-12 pagine di pubblicità al giorno, andava bene quando ne avevamo 2-3. L’edicolante sotto la redazione, non pagato, iniziò a negarci i quotidiani; i collaboratori (molti nostri amici, molti miei amici… scusate, scusate, scusate) iniziarono a non scrivere più; la Telecom ci staccò i telefoni; il manager di Roby Baggio, nostro testimonial, iniziò a farsi vedere con una certa insistenza; i grafici minacciarono lo sciopero; i fornitori (agenzie, fotografi, ecc.) interruppero l’erogazione dei servizi.
Ricordo le buste paga ritirate (ma mai onorate, ovviamente tutte completamente sbagliate) in un ufficio al centro di Roma, senza l’intestazione sul citofono e sulla porta la scritta in caratteri cirillici. Ricordo il nostro editore che uscendo dal giornale il giorno del nostro primo sciopero mi disse: “Così state facendo morire il giornale”. Noi, eh, non te che non ci paghi uno stipendio da 4 mesi e hai fatto sfrattare diverse persone… Ricordo tante cose, che però non si possono scrivere.

In tutto questo marasma ogni giorno c’era un giornale da fare, e da fare bene, perché quello era l’unico modo per garantirci uno straccio di sopravvivenza: era quello il tasto sul quale quei bastardi spingevano, perché anche se le cose vanno di merda e sai di avere a che fare con dei farabutti non è facile trovare il coraggio di dire basta e quindi aspetti di vedere la fine.
Intanto i mesi passano e tu lavori per arricchire dei delinquenti: con orgoglio posso dire che dal 10 marzo ai primi di giugno Dieci fu un prodotto più che degno, indipendentemente dal fatto che veniva realizzato in condizioni impossibili. Vero, c’era gente che scriveva la minuscola dopo il punto, a Dieci, ma c’era anche tanto talento reclutato dallo scout infinito di Ivan.

A proposito di Ivan, sono certo che sia stato vittima di questo schifo e non carnefice: provò in tutti i modi, con le buone e talvolta con le cattive, a farci andare avanti quando andare avanti era assurdo e poi mollò ai primi di giugno con un’uscita di scena teatrale. Alla Zazzaroni, insomma. Io rassegnai le dimissioni il giorno dopo e di fatto chiusi una parentesi che complessivamente mi costò un posto di lavoro, 25.000 euro e qualche anno di vita.
La causa intentata alla Hopit l’ho stravinta anche perchè la controparte ha nominato uno studio legale, si è fatta anticipare le spese legali e poi è sparita. Geni del male, davvero, a cui potevamo fare male solo bruciando la macchina o col rapimento di un loro bambino. Pare che in Italia non si possa fare, però, mentre si può fare che questi stessi signori invece di stare in galera pontifichino su Raidue e continuino a comprare altre testate. La cui fine già conosco, purtroppo, e questa copertura omertosa e generalizzata rispetto a questo schifo è un’altra vergogna, ai miei occhi.

Il bello di Dieci restano 40 sfigati come me che ho conosciuto in quei mesi: come spesso accade nelle situazioni estreme certi rapporti si cementano in fretta e sopravvivono al tempo e alla distanza. E per noi che ci siamo ritrovati in mezzo a una strada, Via Vitruvio 43 è stato come il Vietnam.

Ricapitolando: a Milano ho lavorato sei mesi, tutti i 31 giorni del mese di marzo per 123 ore di straordinario ma senza mai prendere un centesimo. Con le donne di facili costumi sotto casa ma senza i soldi per poterci andare. Il primo maggio andai al drugstore della Stazione a fare spesa, da solo, e la mia tristezza raggiunse livelli mai più sperimentati. Chi mi venne a trovare disse che avevo cambiato faccia. Non in meglio.

Ecco perché oggi scendendo alla stazione di Milano ho provato un discreto sollievo nel pensare che meno di cinque ore dopo mi sarei nuovamente allontanato da quello schifo. E ovviamente non parlo della città, che pure continua a non piacermi per niente.

In attesa di un segnale, imparo a suonare

Restavamo ipnotizzati per un paio di minuti, come se nulla di importante dovesse accadere, come se quanto accaduto fosse già abbastanza importante. Come se alzarsi dalla sedia per andare al televisore a cambiare canale fosse una mancanza di rispetto verso l'Almanacco del Giorno Dopo che stava per iniziare. Era il segnale orario e andava atteso con devozione, con trasporto, quasi in modalità Inno di Mameli.

La musica successiva, che introduceva l'Almanacco e che non so se ho neanche il coraggio di riprodurre qui sopra, ancora oggi mi trasmette angoscia.

Era appena finito Happy Days ma soprattutto era quello il segnale che era finita la giornata e di tempo per studiare non ce n'era più. Perché dopo il telegiornale e la cena non potevi farti vedere sui libri, ammesso che ne avessi intenzione. E io raramente ne avessi. Ma più che altro era il concetto di "fine" che mi allarmava.

Il buco nello stomaco da coscienza sporca non mi ha più abbandonato, nella specialità olimpica indoor "perdere tempo in cazzate" sono stato primatista europeo dal 1983 al 1991: una sensazione con la quale ora ho imparato a convivere, perché notti insonni mi aiutano a riparare, a recuperare le ore diurne buttate quasi letteralmente nel cesso.

Ma quella musica dell'Almanacco del Giorno Dopo non mi abbandona e ancora oggi l'unico sogno seriale e angosciante rimane la vigilia del mio esame di maturità scientifica. Esame che, giova ricordarlo a coloro che si sono messi alla visione e in ascolto solo ora, ho superato con la stecca di Marlboro sotto al braccio: 56/60 la votazione finale, altro che "zeru tituli", se non fosse stato che prima di me mia sorella Letizia era uscita dallo stesso liceo con 60/60 e una mezza promessa per il Ministero delle Pari Opportunità. Come tornare a casa con la Coppa Uefa quando quello prima di ha vinto la Champions...

Da buon Dottor Divago, peraltro, ho cambiato argomento almeno dieci volte in questo post del tutto sconclusionato: mi preme riaffermare due cose, in conclusione. Era meraviglioso, ricordo, aspettare in silenzio davanti alla televisione l'arrivo del segnale orario: rispetto a quanto accade de sti tempi, due minuti in meno di cazzate da immagazzinare per il nostro cervello. E in termini strettamente economici quanto costerebbe ora tenere un canale con due minuti di buio come quelli?

Infine, dopo aver sfiorato l'acquisto di un violino e aver considerato quello di una pianola, oggi mi sono deciso e ho acquistato una batteria elettronica semiprofessionale: il proposito di imparare a suonare uno strumento entro il 2009 (ma non era sposarsi....?) prende forma. Finalmente.
Si cambia musica, e quindi si cambia vita. Basta aspettare il tempo.
Eviterò ora di mettere un disco dei Pooh...

Donne, istruzioni per il disuso

Ci si interroga spesso di donna ideale, delle caratteristiche/qualità necessarie perché una persona ti possa interessare. Single da anni e con evidenti difficoltà nell’ammucchiarmi regolarmente con un’anima gemella, ho buttato giù un elenco provvisorio delle cose che mi hanno tenuto lontano da possibili donne della mia vita.

Ecco, diciamo che avrei qualche difficoltà a fidanzarmi con una che…
…parla in dialetto veneto
…ascolta e apprezza i Pooh
…non va a tempo con la musica (a Roma si dice che “c’ha le cuffie”)
…porta troppo spesso scarpe aperte
…tifa Lazio
…razzista
…è di buon umore alle 6 di mattina
…guida di merda e se la prende con gli altri
…fa colazione con l’uovo sodo alle 6 di mattina
…mi dà troppe volte ragione
…mi dà troppe volte torto
…non si commuove mai
…non ha almeno una storia parallela con Tom Cruise
…esageratamente snob
…arriva sempre puntuale
…pretende attenzioni e non ne dà
…dà attenzioni e non ne pretende
…si prende troppo sul serio
…parla al cinema
…non parla a cena
…patologicamente umorale
…non ama il cinema e/o la musica
…prende troppo l’iniziativa
…che non mi piace baciare
…pensa che l’Italia sia il miglior Paese del mondo
…non apprezza il mio disordine cosmico
…si professa femminista ma esige cavalleria
…non è curiosa della vita

Sì sì, lo so quello che stai pensando e penso anche che tu abbia ragione. Infatti sto da solo…

"Ha qualche sospetto...?"

La procedura di check-in, sempre la stessa, ma il fatto che si svolga alle 7.50 di mattina rende i miei tempi di reazione più dilatati. “Imbarca un bagaglio?”, fa lei e a me verrebbe da rispondere “Ce provo”, come Nino Manfredi improbabile stregone quando Alberto Sordi gli chiede se è davvero ha imparato a far piovere per far cessare la siccità. Il volo scorre tranquillo, a parte il fatto che come sempre a Palermo c’è la galleria del vento permanente e così l’aereo trova il suo assetto orizzontale a 20 metri da terra. Anzi, dal mare, perché la terra la vedi un secondo prima dell’atterraggio, mica prima.

Recupero il bagaglio ed esco dall’aeroporto, prima di salire in macchina decido di prendere la telecamera dal trolley perché mi viene detto che nel quartiere dove stiamo andando sono piuttosto sensibili all’hi tech. Mi viene in mente quella volta che andai a San Severo per assistere alla partita di addio di Walter Magnifico: stavo per parcheggiare il mio New Beetle fuori dal palazzetto quando uno degli organizzatori mi invitò a utilizzare il parcheggio interno: “No, per carità, che qui sono appassionati di macchine…”. Ma come appassionati, non si chiamano ladri? Vabbè, torniamo a noi.

Apro il trolley e nel marasma di felpe, calzini, superbasket, la telecamera non c’è. Tremo al pensiero di essermela dimenticata, particolare che renderebbe inutile il mio viaggio a Palermo, ma poi l’occhio mi cade sulla cerniera. Forzata. E telecamera rubata, da appassionati di cinema di San Severo probabilmente. Rientro subito in aeroporto e sporgo (!!) denuncia ai Carabinieri: non sfondo una porta aperta raccontandovi le estreme difficoltà dei due (un uomo e una donna) a redigere il verbale al computer, spesso per la sinistra tendenza a confondere il tasto INS con CANC. Il carabiniere maschio tende a precisare che a Roma questo vizietto non se lo vogliono togliere, scagionando così tutti i possibili sospetti palermitani, poi arriva la domanda alla quale non riesco a rispondere con calma: “Ha qualche sospetto?”.
Beh, sì, la tipa del check-in di stamattina aveva una faccia poco raccomandabile, in realtà la mia risposta è “Sì, tutti quelli che lavorano all’aeroporto di Fiumicino e tutti quelli che lavorano all’aeroporto Falcone-Borsellino” (che tra l’altro si saranno rigirati nelle tombe all’unisono).Il paradosso è che ti rubano un oggetto in un’area teoricamente protetta e invece la denuncia è iper-generica, come se la videocamera te l’avessero scippata in autobus. Ovviamente non è previsto alcun tipo di rimborso perché il bagaglio andava assicurato.
Altrimenti ci sta che qualcuno lo apra e ti rubi qualcosa, non puoi mica pretendere che ti venga riconosciuto il danno procurato. Stronzo io, direte voi, a imbarcare una videocamera col bagaglio. Vero, anche se con i low cost mi è capitato di avere problemi col peso del bagaglio a mano. Rapporto difficile il mio con la bilancia, d’altronde, e anche fuori dagli aeroporti ed ecco perché da lunedì scorso mi porto la denuncia nel portafoglio. Ho i miei sospetti, come l’ispettore Derrick…

PS. Scrivo sul treno Roma-Vicenza: una signora mi ha appena fatto notare che l’auricolare dell’Ipod mi era caduto a terra e rischiava di essere calpestato: mi giro e la ringrazio, lei sente il dovere di aggiungere (per non correre il rischio di sembrare troppo gentile): “Te l’ho detto perché ho visto che sei della parrocchia mia, se eri della Lazio mica te lo dicevo”. Per la cronaca, stavo leggendo “Il Romanista”. Numero uno.

GF e Vespa, trova l'errore...

Ore 20.10, muore la povera Eluana. Ma non voglio parlare di questo, tranquilli.

Qualche minuto dopo il TG1 si affretta a riferirci che il papà ha appreso della morte dall'anestesista, notizia certamente degna di nota, mentre tutti gli altri telegiornali corrono ai ripari con speciali, inserti, dossier, coccodrilli. Tutti contro tutti.

Mi assento, schifato, e torno davanti alla televisione un'ora dopo.

Su Raiuno Bruno Vespa è in forma-Cogne, gli manca solo un plastico del letto di Eluana. Lo sciacallaggio più bieco lascia presto il campo alle speculazioni politiche, mi aspetto silenzio, commozione e solidarietà e trovo aggressioni, rimbalzi di responsabilità, teatrini vergognosi. Zero rispetto del dolore della famiglia.

Il dito mi va sul 5 e invece dell'atteso Mentana mi abbevero dalla peggiore edizione ogni epoca del Grande Fratello: qui a differenza di Raiuno dove si parla di Eluana le lacrime non si negano a nessuno: ex fidanzati che tornano d'attualità, genitori sdoganati dal confessionale, improbabili coppie, doppie coppie, tris di primi piani raccapriccianti, full immersion di brutta gente. Il tele-vuoto ufficialmente aperto dalla Marcuzzi che nei primi 7 secondi della sua trasmissione però abbraccia "anche virtualmente" il papà di Eluana.

Al Grande Fratello si piange a dirotto per quattro ore di seguito, a Porta a Porta non scorre una lacrima neanche per sbaglio.

Il mondo (della comunicazione) è sbagliato, questo già lo sapevo. Ma starei meglio se non ne avessi conferme quotidiane.

L'importanza delle parole

Che le "parole siano importanti" lo penso da prima che ce lo urlasse Nanni Moretti in "Palombella Rossa", da prima che nel 2000 diventassi giornalista. Lo penso ancora di più nel febbraio 2009, quando le parole vengono buttate lì, senza tanto starci a pensare, tanto per "smarmellare". E invece no, non va bene, ogni parola ha un suo significato, che va rispettato, omaggiato, protetto. Io nel mio piccolo in questi anni l'ho fatto e allora capita che ancora oggi mi accanisca telefonicamente con chi, ad esempio, mi dica che la sua storia d'amore "complessivamente non va male" pure se gli piace parlare 24h con un altro. E non mi avveleno solo se la cosa riguarda me, è proprio un affare linguistico. Altri esempi? Eeeee azione

1. Febbraio 2002, io ed Enrico cerchiamo affannosamente un posto in cui mangiare nella campagna di Castel Maggiore. Alle 14.01 entriamo in un self service chiamato "Tavola Amica", l'orario di chiusura indica le 14.00 ma i tegami al di là del vetro sono ancora pieni di cibo: i cuochi e gli inservienti stanno mangiando, uno di loro si alza, viene verso di noi e con fare scocciato ci dice che è chiuso. Timidamente, facciamo notare che non vogliamo piatti caldi ma semplicemente prendere dal self service le cose già pronte. Tassativo, il cuoco: "Siamo chiusi, mi dispiace" mentre ci accompagna alla porta. Io ed Enrico, due code tra quattro gambe, facciamo per andarcene ma la fame mi genera una reazione. Così mi giro e prima di sparire nel nulla (ovviamente lì non siamo più tornati) gli dico: "E voi sareste Tavola AMICA? E se eravate Nemica? Almeno cambiate insegna, per favore, questa è pubblicità ingannevole". Tavola Amica, come no?

2. Lasciamo stare che il cinese che ha aperto un centro benessere a San Paolo pare abbia ricevuto una denuncia per molestie sessuali: voglio dire, ci può anche stare, e poi con me non ci ha neanche mai provato (tanto che la prima volta ci rimasi anche male, devo ammettere): il problema è che la sua insegna "Benessere" fucsia su sfondo viola (cromaticamente ho visto di peggio solo con la maglietta dello Steaua Bucarest) non corrisponde a quanto succede nella sua stanzetta bianca riscaldata da un "Pinguino" rumorosissimo. Sulla vetrata esterna la lista scritta a penna delle malattie che è in grado di alleviare/curare: emicrania, sciatalgia, pubalgia, emorroidi, nausea, problemi di circolazione, ipertensione, dolori mestruali, dolori articolari, gomito del tennista, fuoco di Sant'Antonio, alluce valgo, forfora, cellulite, metabolismo lento, vene varicose. Ricordo che la prima volta che entrai gli dissi che a parte i dolori mestruali per il resto sentivo di avere tutto e che quindi aveva ampio raggio di azione: ricordo due sedute dolorosissime di Digitopressione (sta cazzo di Digitopressione, aggiungerei) e ricordo anche che dopo la mia operazione all'occhio, ravvisando un gonfiore, voleva infilare un bastoncino di legno sotto la palpebra per rimuovere le lacrime (e probabilmente anche l'occhio). Benessere...

3. Se avete avuto la fortuna di viaggiare con Trenitalia, oltre ad apprezzare gli eufemismi, saprete che nel caso in cui il vostro Eurostar ritarda di 25 minuti avete diritto a un rimborso pari al 30% del biglietto. Questo vuol dire che se un treno accumula più di 40-45 minuti e pensano di non poterlo "recuperare" lo declassano direttamente a "carro bestiame" e iniziano a dare la precedenza anche alle macchine ferme ai passaggi a livello. Al contrario, se il ritardo staziona (!!) intorno ai 30 minuti possono anche investire una mamma con carrozzina al seguito per cercare di recuperare 6 minuti e far risparmiare l'azienda. Sta di fatto che un anno fa mi è arrivato a casa un BONUS di 85 euro. Bello, no? Sia per i soldi, sia per il concetto di BONUS, parola che ti rallegra perché ti migliora la vita. Bene, due settimane dopo ho utilizzato il BONUS per comprare un biglietto Roma-Terni, costo 8 euro. Mi è stato detto che ne avrei persi 78, perchè il BONUS andava utilizzato in un solo colpo. "Vattene in prima, no?", fu il consiglio del bigliettaio, al quale risposi "No, sai che c'è, famme direttamente un Roma-Istanbul così li spendo tutti. Arrivo lì e torno in aereo". Alla fine ho risolto, acquistando un biglietto di 55 euro e un Roma-Bologna fittizio aperto fino al 31 gennaio. Il 31 gennaio sono andato in biglietteria per farmi prolungare il periodo, visto che il biglietto non era stato utilizzato, operazione costata 3 euro (perchè?). Stamattina ho cercato di acquistare un Roma-Bologna utilizzando il mio biglietto e aggiungendo solo il supplemento Eurostar. "Non se po' fa, devi anna' solo con un espresso", mi è stato detto. Si chiama BONUS, in effetti, ma per utilizzarlo rischi l'infarto ogni volta...

4. La scorsa settimana ricevo una telefonata di una persona intenzionata a mettere pubblicità su Tripladoppia.com. Premetto, telefonata squisita da parte di una persona molto competente, che non conosco ma che mi ha suscitato subito simpatia. "Mi presento, sono....... Io non mi occupo del brand vero e proprio perché la mission dell'azienda prevede un asset molto verticale. Io gestisco l'e-commerce, quindi non ho a che fare con l'endorsement". L'ho interrotta, a quel punto, ammettendo che avrei dovuto capire tutto ma che invece non avevo capito un cazzo e che quindi avevo bisogno di un incontro faccia a faccia (face-to-face meeting) per decodificare il tutto, anche con l'ausilio di disegni. Un dirigente della stessa azienda lo scorso anno mi incrociò a un evento organizzato (splendidamente) da loro e mi chiese: "Ti piace davvero? L'abbiamo voluto molto lifestyle". E io: "Ah sì? E l'alternativa quale sarebbe stata?". E lui: "Sportswear". E io: "Ah". Italiano no, eh?

E allora perdonatemi, preferisco il mio amico Bebbo che le parole invece di buttarle nel cesso le risparmia. "Gianca, chissà che c'ho, mi sento che me se chiudono gli occhi, è una sensazione strana...". "Bebbo, sarà che sono le 5.40 di mattina, penso che si chiami SONNO". E che ci vuole tanto...

Nostalgici, il traffico, Milano-Roma, Molly

Mi avvalgo di flash, in sequenza, talvolta sfocati, per colmare il vuoto di un mese di assenza da questo blog. Per il quale coltivo, oltre che affetto, anche discreti sensi di colpa. Flash, dicevamo, tratti da 41 anni in cui mi sono annoiato proprio poco. E a chi mi rimprovera del fatto che questo blog sia eccessivamente autobiografico rispondo che ha ragione. Da vendere. Qui si parla di me, o meglio di come i miei occhi interpretano quello che mi succede.

1. Ieri pomeriggio, fermata metro del Colosseo, salgo a fatica in un vagone affollatissimo. Davanti a me due ragazzi rasati, non più di 18 anni, svastiche ovunque. Parlano di andare a Campo de Fiori il giorno dopo, dicono che "li romperanno", accennano a quando ne hanno "...sfonnati due". Uno scende a Garbatella, l'altro gli stringe la mano e lo saluta "Bella camerata, te scrivo stasera su messenger o sennò su Skype". Cervelli completamente disabitati, ovviamente, ma l'instant messaging adottato dai nostalgici del Duce mi ha fatto tanto ridere.

2. A proposito di ridere, ieri sera in una radio romana è intervenuto un distinto tifoso della Roma. "Mi hanno regalato un gatto a Natale, siccome c'aveva i baffi (!!!!!) l'ho chiamato Pruzzo". Ci penso da ieri sera e non smetto di sorridere. Ma come si fa a chiamare un gatto Pruzzo, povero?

3. Qualche post fa vi ho raccontato delle difficoltà incontrate per far sì che il mio cognome non venga storpiato in tutti i modi. Bene. Venerdì scorso a Priolo, lo speaker della partita, con 3.000 persone sulle tribune, ha chiamato in campo l'addetto stampa della Nazionale Femminile ALESSANDRO Migliola.

4. Ultimi giorni della mia pessima escursione milanese, estate 2006. Trattoria dimenticabilissima a 200 metri dalla stazione: alle 22.30 mi chiama un amico e mi informa che nel giro di un quarto d'ora sarà dei nostri. Mi alzo dal tavolo e vado a informare la signora, chiedendo la disponibilità a tenere aperta la cucina per altri venti minuti. La tipa mi fissa, mi ascolta, si apre in un sorriso dolcissimo e mi risponde: "Ma assolutamente NO, io devo chiudere!". Definitivamente, aggiungo io, ma poi penso che sono i miei ultimi giorni lì e risparmio le energie. Un mese dopo, Roma: all'uscita da una partita della Lottomatica, io e Bebbo dobbiamo mangiare: è quasi mezzanotte, passiamo davanti a una pizzeria e vediamo un cameriere che sparecchia i tavoli posti all'esterno. Mi avvicino col consueto fare (troppo) gentile e chiedo il miracolo: "So che è tardi ma non è che ci farebbe mangiare qualcosa?". Risposta: "Ma che tardi, avemo aperto adesso...". La contrapposizione Roma-Milano è stantia e sorpassata, posso solo dirvi che pensai di essere contento di essere tornato a casa mia.

5. Detesto, come tutti, restare imbottigliato nel traffico ma mi avveleno se sono incolonnato in file che non mi appartengono. Mi spiego: se rimango sul Lungotevere un'ora andando allo stadio posso prendermela solo con me che non ho preso la metro. Ma se torno dal cinema e sto un'ora fermo fuori dal Palaeur perchè in quel momento stanno uscendo 15.000 invasati da un concerto divento pazzo: soprattutto se abbasso il finestrino e chiedo di chi fosse il concerto. "Gigi D'Alessio". Avrei potuto farne fuori qualcuno, quella sera. Un'ora in mezzo a un milione di macchine di gente che aveva speso almeno 30 euro per andare a sentire il fidanzato della Tatangelo. Not in my name.

6. Ospedale di Brunico, rieducazione dopo l'intervento ai legamenti. Mi segue Rudi, fisioterapista italiano che però parla meglio tedesco. Io sono a pancia in giù e fletto l'articolazione che lui mi tiene, nel frattempo Rudi parla con la sua collega crucca. A un certo momento mi piega la gamba e mi chiede di resistere al dolore, io eseguo. Lui intanto chiama Molly, io resisto. E lui continua a chiamare Molly, io inizio a piangere dal dolore. E mi chiedo dove cazzo sia finita questa troia di Molly, che finchè non risponde io non finisco l'esercizio. A un passo da un'altra rottura dei legamenti, Rudi sbotta: "Molli, Giancarlo, molli atesso, come glielo tevo tire di mollare?". Per la cronaca, la fisioterapista crucca si chiamava Maria, non Molly.

Priolo, Marghera e il Natale

Arrivi alla tangenziale di Mestre, te ne stai quelle quattro ore immobile a riflettere sull senso della tua vita e sul nuovo modulo di Spalletti pochi minuti dopo essere uscito dall'inferno di lamiere, sulla destra ti si staglia il polo chimico di Marghera. Spaventoso. Nel vero senso della parola perché oltre a fare schifo (qualcuno mi ha detto che quella roba ha il suo fascino ma io, sinceramente, faccio fatica) a me fa paura, soprattutto di notte.

L'obbrobrio resiste allo sguardo una decina di secondi, passando in macchina a una normale velocità di crociera, dopodichè si è già sul ponte che collega Venezia alla terraferma. Giusto il tempo di attraversarlo, roba da 3-4 minuti, e poi di parcheggiare (roba da 40-50 euro) e da Piazzale Roma si accede in un amen al Paradiso terrestre. Soprattutto se come nel mio caso si preferisce raggiungere San Marco a piedi e non col traghetto. In non più di dieci minuti dall'incubo delle ciminiere alla poesia delle calli, dei ponticelli, delle gondole. Poesia.

Arrivi all'aeroporto di Catania, il terzo in Italia per traffico dopo Malpensa e Fiumicino (mettece na pezza) e dopo aver salutato con lo sguardo il minaccioso Etna (abbaia ma non morde, dicono) ti dirigi verso Siracusa con la macchina saggiamente noleggiata per evitare il trasporto pubblico siciliano. Mezzora di strada trafficata con le corsie che passano da una a quattro, e viceversa, in grande scioltezza, e sulla sinistra ti si staglia un panorama fantastico, quello del mare di Sicilia. Peccato che appena prima della spiaggia a farla da padrone siano le lunghe ciminiere biancorosse del polo di Priolo.

Non come a Marghera, qui il senso spaventato non è la vista ma l'olfatto: la puzza di plastica bruciata si fa insopportabile col passare dei chilometri, mi chiedo come diavolo faccia la gente a vivere lì (me lo chiedo anche quando passo vicino al casello autostradale di Faenza, in realtà). Mentre mi interrogo sull'adattabilità al fetore, le ciminiere passano a riempire gli specchietti retrovisori e il cartello "Siracusa" mi riporta alla realtà.
Dopo un paio di chilometri i palazzoni lasciano spazio alle palazzine a due piani, la strada scende morbidamente al livello del mare fino al ponte che introduce a Ortigia. Un altro Paradiso, un lembo di terra battuto dal mare in ogni direzione, un posto fatato nel quale le macchine faticano ad entrare. Passeggiando una notte di autunno per Ortigia, con la pioggia battente e il mare particolarmente incazzato, la mia vita si è fermata e ho pensato di essere felice. Non succedeva da anni.

A questo punto la domanda sorge, abbastanza spontanea: è casuale il fatto che per raggiungere il Paradiso sia tassativo attraversare l'Inferno? La tempesta prima della quiete? Serve per potenziare l'effetto scenografico? E' un concetto che si può astrarre e applicare ad altre situazioni di vita? Tipo uscire a cena con Scarlett Johansson ma prima essere costretti a prendere l'aperitivo con Rosy Bindi?

Detto questo, è Natale. E il pensiero non può non correre all'edizione del 1979: avevo 12 anni, anelavo il Subbuteo World Edition e la pista Polistil, sentivo che qualcosa di magico stava per accadere. Scartai il regalo con avidità, dentro trovai un pigiama marrone. Una catastrofe dalla quale non mi sono mai completamente ripreso e che a mia madre non ho ancora perdonato. Un pigiama a Natale no, cazzo!

Giornalisti, brutta razza!

Quando mi sento definire un “uomo di comunicazione” sorrido, perché non so a quale delle due categorie mi sento di appartenere meno. Come quando a Benigni chiesero se si sentisse il Woody Allen italiano e lui rispose che avrebbe preferito essere l’Anna Magnani svizzera.

Sarà che sono diventato giornalista professionista nel 2002, dopo undici anni di vero lavoro quindi, sta di fatto che sulla categoria in generale fatico a spendere parole lusinghiere. E parla uno che in generale non fa fatica a spendere. Ho scritto sempre e solo di sport, di basket nello specifico, e questo vuol dire due cose essenzialmente: non ho mai avuto a che fare con poteri forti e sono stato pagato per scrivere di partite di pallacanestro per vedere le quali avevo pagato io nei precedenti 33 anni della mia esistenza.

Intorno alla categoria cui appartengo ma che non rappresento avverto una sfiducia generalizzata e diffusa, quando non si sfocia nel sarcasmo. Il guaio è che nel 95% dei casi il prodotto giornalistico oggi in Italia viene imbeccato dall’editore/datore di lavoro e sottosta a bieche logiche di mercato: sfondo solo porte aperte, mi rendo conto, ma questo è il motivo per cui a Studio Aperto vanno a intervistare uno che si sta suicidando mentre è ancora in volo dopo essersi buttato dal decimo piano.
Ed ecco perché più o meno sai già cosa leggerai nel momento in cui stai acquistando un quotidiano, perché tutti gli schieramenti sono consolidati e non ammettono diserzioni: anche rimanendo nell’ambito sportivo, che probabilmente è il meno vincolato a certe logiche di potere, la tendenza a scrivere/raccontare con modalità gradite ai potenti è tristemente diffusa. E condivisa dai più, tanto che si astiene dà nell’occhio.

Mi ritengo una persona mediamente codarda e tendenzialmente corruttibile, lontano quindi dall’odore di santità del giornalista tutto di un pezzo, di frontiera. Non sono Marco Travaglio, che peraltro ammiro, eppure in questi anni mi sono sempre sforzato di scrivere esattamente ciò che vedevo. Anzi no, non mi sono sforzato, mi è venuto naturale. Così talvolta ho tradito il tifo per la mia Virtus con articoli di cronaca estremamente severa e in generale ho “raccontato” senza mai assecondare i “bisogni” più o meno impliciti di quelli che contano. Di quelli che potrebbero spendere una parola buona per farti prendere o prolungare un contratto.
Mi venderò un giorno, me lo auguro, ma lo farò per un’offerta congrua. Intanto faccio SOLO gli interessi di chi spende i soldi per leggermi e non ci vuole entrare niente con le mie potenziali manovre di captatio benevolentiae. Non sono un grande giornalista, non lo diventerò certo ora. Però pulito mi ci sento e questo per ora mi basta, il fatto di stare sulle scatole a tanti personaggi influenti della pallacanestro italiana credo sia un riconoscimento e non un’onta.

Giocoforza, poi, un’informazione in modalità “Studioaperto” non può che generare un popolo di mostri: le centinaia di persone appollaiate sui ponti di Roma in attesa che qualcosa di drammatico accadesse, più che ad ammirare la potenza del Tevere incazzato, mi hanno riportato alla mente quelli che pochi giorni dopo il delitto di Cogne andavano fuori dalla casa dei Franzoni a farsi le foto col telefonino. Ricordo che la polizia fu costretta a deviare il traffico perché intorno all’abitazione ancora presidiata dai Ris si era formata una fila incredibile. Il turismo dell’orrore. Il mio orrore per quel turismo. Perfida maestra televisione.

Il mio nome è Giancarlo, Giancarlo Migliola

Il mio nome è Giancarlo Migliola, vorrei fosse chiaro una volta per tutte e per tutti. Non mi chiamo Hans Klangerfurter, mi chiamo Giancarlo Migliola, è facile.

Lo dico all'addetto stampa dei New York Knicks che nel 1997 non mi ha permesso di incorniciare l'accredito stampa di Knicks-Suns riservandolo a Giancarlo Migliada.

Lo dico al gestore del Tennis Club La Quinta, sulla Pontina, che nel 1983 si affacciò sulla porta del suo gabbiotto per chiedere: ""E' già arrivato Migliotta?". Roberto, che mi accompagnava sempre ai tornei, commentò a bassa voce "E t'è andata pure bene".

Lo dico a chi la scorsa settimana mi ha presentato in una conferenza stampa come "l'addetto stampa della Nazionale Femminile Giancarlo Migliore".

Lo dico al responsabile ufficio stampa dell'Arsenal che qualche anno fa non mi voleva far entrare ad Highbury perché gli risultava una richiesta di accredito per Giancarlo Migliova, probabilmente il mio omologo slovacco.

Lo dico a chi lo scorso anno voleva registrarmi al Tribunale come direttore di Tripla Doppia col nome di Giancarlo Bigliola.

E qui non mi va di ricordare le storpiature sul nome, che è stato G.Carlo, Gianfranco, Gianluca.

Eppure non dovrebbe essere difficile, Giancarlo Migliola, devo essere io a scandire male.

G I A N C A R L O M I G L I O L A.

Mi costringerete a diventare famoso solo per non vedere più scritto sbagliato il mio nome. Con tutte le cose che c'ho da fare...

La Nigeria non si discute, si ama!

Sinceramente non ricordo come successe, la prima volta, ma so quando successe. Era l’inverno 2001 e sia io che Vittorio decidemmo che la scusa del lettore dvd fosse un motivo sufficiente per giustificare l’acquisto di una Playstation 2. Gli anni sommati da me e lui erano già 68 (ora sono 82…) ma una tradizione ludica nata col Commodore 64 e proseguita con l’Amiga 500 non poteva essere interrotta. Storie (tese) tra me e lui fino a quel momento di Cinemaware Basketball, io con i Chicago Bulls e lui con i Portland Trail Blazers.

Una finale NBA 4 su 7 disputata nelle rispettive case, una volta anche col joypad difettoso e un faro puntato in faccia, perché il fattore campo esiste, cazzo, eccome se esiste. E siccome i valori da assegnare ai propri giocatori erano limitati (da 1 a 8), Vittorio teneva costantemente nel portafoglio il foglietto col roster e le scelte correnti: ogni momento era buono per riconsiderare la distribuzione dei suoi. Drexler: Tiro 8, Passaggio 1, Difesa 1, Rimbalzo 1, Elevazione 8, Penetrazione 8, ecc. Come vedete le vie di mezzo non erano viste di buon occhio, neanche da me, e così capitava che Jerome Kersey chiudesse con 16/16 dal campo o che Will Perdue tirasse giù 25 rimbalzi in 24’.

Tornando quasi ai giorni nostri, con la Playstation2 acquistammo all’unisono anche Pro Evolution 2, il gioco del calcio più simulativo sul mercato. Ecco, dicevo, io non ricordo come è successo, sta di fatto che alla prima partita io presi la Nigeria e lui il Camerun. Un omaggio dovuto a una civiltà che rispettiamo profondamente, ma pure un’escursione esotica in un calcio semisconosciuto e affascinante. Dove si corre e non si passeggia, dove la forza fisica è predominante.

Quello che non potevamo sapere era che quella scelta avrebbe cambiato le nostre vite. Perché da quel giorno io e Vittorio abbiamo giocato almeno 1000 partite (almeno…) con le varie edizioni del gioco uscite negli anni, una volta anche con la “Notte Bianca del Calcio Africano” che ci ha visto impegnati fino all’alba, tra una tisana e una birra: io sempre e solo con la Nigeria, lui col Camerun. Che neanche a Lagos e a Yaounde, dove sicuramente chi gioca prende Italia, Francia, Argentina, Brasile: noi sempre Nigeria e Camerun, fino a farla diventare una malattia, un motivo per troncare la nostra trentennale amicizia, un confronto tra popoli che è uscito presto dai confini pallonari. Quando morì il camerunense Foe per un attacco di cuore osservammo un minuto di raccoglimento, Vitto giocò per un mese col lutto al braccio e io gli inviai un sms di condoglianze. Lo stesso fece lui quando in Nigeria cadde un aereo. Vitto ha sciarpa, bandiere e magliette del Camerun appese nella sua casa di Malo, io avevo fatto altrettanto a Bologna col merchandising nigeriano pure se riconosco che il biancoverde non ha nulla a che vedere, come appeal, rispetto al giallo-verde-rosso dei Leoni Indomabili.

Storie di partite passate alla storia, con rimonte insperate, rigori sbagliati, joypad tirati verso il muro e distrutti, Playstation spente a 3 minuti dalla fine col risultato sfavorevole. Una volta, per sfregio, inviai a Vitto un mms con la foto dello schermo di fine partita: Nigeria-Camerun 47-0. Avevo giocato contro la Play a difficoltà zero. Non passò neanche un’ora che sul mio cellulare piovve un mms. Camerun-Nigeria 61-0. Da sette anni a questa parte il mio mondo e quello di Vittorio gira intorno a Nigeria e Camerun, pure se l’esplosione di Eto’o ha inquinato la rivalità perché non esiste un difensore nigeriano capace di fermarlo. O di abbatterlo definitivamente, di procurarne la fine della carriera, opzione tattica che ho iniziato a prendere in considerazione due anni fa. Bei tempi quando Babangida deturpava la fascia destra e appoggiava mobidi cross per la testa del sempreverde Kanu. Era quasi sempre gol, tanto che Vittorio entrò in analisi per un breve periodo e poi dipinse di bianco i capelli di Kalla, stopper camerunense che con Kanu non la prendeva mai. E poi altre ore in macchina a discuterne tra una partita e l'altra: "Se abbasso Lawal sulla linea dei terzini sono più coperto ma meno propositivo". "Dietro mi sa che passo alla difesa a tre, e metto il trequartista..."

C’è una prostituta nera per strada? Per Vitto è nigeriana, per me è camerunense. Dobbiamo fare una donazione ad Amref? Ci sinceriamo di quali Paesi siano interessati dalle adozioni a distanza. Ci manca solo che spendo soldi per far studiare e giocare uno che tra dieci anni mi trovo contro a Pro Evolution 19.

Ogni anno, a metà ottobre, esce la nuova edizione del gioco e ogni anno io e Vittorio ci precipitiamo ad acquistarlo per non perdere neanche mezza giornata di “studio” rispetto all’altro. Due anni fa Nigeria e Camerun si sfidarono nei quarti di finale della Coppa d’Africa, in Egitto: io mi ero fatto accreditare dal Guerin Sportivo, arrivammo a un passo dal partire. Sarebbe stato meraviglioso: lui nella curva dei Leoni, io in mezzo ai miei fratelli nigeriani. Gli unici bianchi nello stadio, gli unici a insultarsi a 100 metri di distanza. Gli unici a saperne più dei rispettivi allenatori.

Perché potete dirci tutto ma come mettiamo in campo Camerun e Nigeria noi…

Grazie, immenso Caputo!

Ho dovuto aspettare 41 anni prima di essere accolto in un aeroporto da un autista col cartello "Migliola". E' successo a Palermo un paio di settimane fa, coronando un sogno che cullavo da bambino. Poco importa che all'aeroporto di Punta Raisi, da qualche tempo tristemente ribattezzato "Falcone e Borsellino" non mi sia venuto a prendere uno chaffeur dotato di scintillante macchina blu ma l'ineffabile Caputo con una Polo bianca.

Caputo è l’autista della struttura per la quale sto lavorando a Palermo e in due settimane ho imparato ad amarlo sopra ogni cosa. Perché Caputo, che in teoria sarebbe stato mandato a prelevare un illustre consulente della comunicazione, mi ha baciato dalla prima volta che mi ha visto e mi dà del tu mentre io sono rimasto a un vetusto “lei”. Pare che al dirigente che è andato a prendere in aeroporto la settimana prima della mia, Caputo abbia chiesto di spingere la Polo in panne e siccome il problema era alla frizione sembra che abbia anche urlato al malcapitato di salire. Ovviamente al volo.
Caputo ogni volta mi prende a Punta Raisi e prima di depositarmi a Monreale, una ventina di chilometri sopra Palermo, mi porta a fare commissioni insieme a lui. “Dottore Migliola, aspettami qui un attimo”, mi dice, prima di mollarmi in sesta fila nella strada principale di Monreale, pendenza media del 34%. Dopo cinque minuti e un paio di minacce di morte subite dal sottoscritto, Caputo generalmente torna con due borse della spesa e l’ultima volta mi ha anche offerto metà della banana che si stava sbucciando. Una breve sosta alla Posta, una al bar a giocare al Superenalotto e finalmente sono in ufficio.

La guida di Caputo merita un approfondimento: sulla sua macchina le cinture di sicurezza non sono montate, evidentemente ingombravano, e oltre a una discreta disinvoltura peraltro condivisa (se non apprezzata) dal resto dei palermitani va rimarcato la sua predisposizione a suonare il clacson. Caputo strombazza a tutto ciò che si muove e pure a tutto ciò che sta fermo, per par condicio: se passa con l’arancione quasi rosso partono due colpetti per mettere in guardia gli altri a non scattare col verde, se c’è un passaggio a livello chiuso sollecita l’arrivo del treno, se un altro automobilista gli segnala il cambio di direzione mettendo la freccia la strombazzata è d’obbligo, perché c’è aria di presa per il culo.

L’ultima volta che Caputo mi ha portato a Monreale è stato anche protagonista di uno disdicevole incidente: arrivato lungo a uno stop posizionato in salita è dovuto indietreggiare fino ad abbattere un motociclista posizionato dietro di noi. Ho preferito rimanere in macchina mentre i due bisticciavano in palermitano estremo ma mi faceva impazzire il fatto che quello senza casco rimproverasse a Caputo la manovra oggettivamente poco elegante. E che Caputo, che aveva percorso all’indietro almeno cinque metri, chiedesse il rispetto della distanza di sicurezza. Che a detta sua doveva contemplare anche la possibilità che uno mettesse la marcia indietro e accelerasse…
Lite fantastica con in mezzo una quindicina buone di infrazioni al codice della strada equamente ripartite, buona anche per una scena di “Johnny Stecchino”, il capolavoro al quale non ho smesso di pensare per tutto il volo la prima volta che sono sceso a Palermo. E ancora non conoscevo Caputo, che dopo avermi illustrato il monumento dedicato a Giovanni Falcone antistante l’autostrada, mi ha iniziato a descrivere il primo, vero, grande problema che affligge Palemmmmmmo e la sua gente… Il 'ccciaffico… e via un colpo di clacson a uno che aveva acceso le luci di posizione nel tunnel.
Grazie, Caputo. Grazie!

Disarmateli, 'sti scivoli...

Quando vi dico che sono nato vecchio e che morirò neonato, fidatevi.

Da piccolo avevo mille paure, a 5 anni chiedevo a papà se avesse preso le chiavi di casa e soprattutto se fosse in grado di ritrovare la strada per tornarci. Mia mamma, santa donna, mi mandava in giro vestito in maniera improbabile, una volta da tirolese e un’altra da ragazzo della via Pal/Ntsc: fondamentalmente ero un “soggetto”, un bambino un po’ troppo coccolato e con qualche paura di troppo. Una di queste riguardava il volo, tanto che quando tutta la mia famiglia si prenotò per il “battesimo dell’aria” (in pratica, un volo di un’ora sopra Roma nel quale tra l’altro il pilota sfogò tutta la sua frustrazione con una serie di evoluzioni acrobatiche) io me ne restai a casa accudito da mia nonna. Anzi no, le mie nonne andarono tutte e due.

Ora ho 41 anni, non sono ancora diventato il Marylin Manson italiano ma certo mi sento un po’ più disinvolto nelle mie cose: l’abbigliamento è desolatamente casual e questa cosa manda fuori di testa i miei, che darebbero un braccio ciascuno per un figlio da giacca e camicia e invece se ne ritrovano uno in casa da scarpe gialle e jeans degli Harlem Globetrotters.

Ho meno paure, ora, vivo le mie cose con più serenità e anche il terrore di volare è alle spalle: solo questa estate ho preso 28 aerei, due la settimana scorsa, e ogni volta resto affascinato da alcune dinamiche. Le attese davanti all’imbarco che una volta ti sembrano infinite e la volta dopo passano in un amen, l’applauso per l’atterraggio, i fischi per il decollo, la richiesta di bis per le virate, “Armate gli scivoli”, la consistenza delle nuvole che non sempre genera turbolenze, le facce annoiate delle hostess che sbadigliano mentre ti spiegano che in caso di ammaraggio devi essere tu ad aprire la porta di sicurezza (se, vabbe...), l’impossibilità di capire cosa cazzo dica il pilota mentre si è in volo, il solito assurdo tentativo di capire quale parte di mondo stiamo sorvolando ("ma quello che, è il Lago di Garda? No, il Mar Nero…") .

Un po’ di sana tensione c’è sempre ma non vivo il volo con terrore: certo è che se poi mi si mette vicino una signora settantenne di Siviglia che il decollo lo passa tutto inneggiando a Santiago di Compostela e alla (terribile) turbolenza prima dell’atterraggio mi sequestra la mano e inizia a piangere, un po’ di ansia mi prende.

Venerdì scorso sono tornato da Palermo (viaggio di lavoro oggetto del prossimo post), sfidando il nefasto Punta Raisi ora ribattezzato “Falcone e Borsellino”, e mi è capitata la cosa più divertente in assoluto: il tipo vicino a me si è fatto incellophanare il bagaglio prima del check-in, peccato che fosse quello a mano. Quando si dice voler stare tranquilli...

Bye bye Halloween e l'assassino del conte

Sarà perché il 4 novembre eleggeranno (speriamo) un presidente che poi cercheranno di uccidere nel giro di qualche settimana, sta di fatto che tutto quello che riguarda e arriva dagli Stati Uniti (Brandon Jennings a parte) mi dà sui nervi. Aggiungeteci la più devota avversione a tutte le festività di questo mondo e capirete perché per me Halloween è esattamente come la corazzata Potiomkin quando ottenne 92 minuti di applausi.

Cioè, vorreste convincermi del fatto che io il 31 ottobre dovrei essere contento di festeggiare con la zucca, le maschere, i denti di Dracula, i dolcetti e gli scherzetti per una festa che è solo ed esclusivamente americana? Ma che me rappresenta? E il Giorno del Ringraziamento, allora, non ce lo mangiamo un bel tacchino? E il 4 luglio mica andremo a lavorare? E come no?

Senza ipocrisie, sono pure io un figlio dell'NBA, di McDonalds e di Happy Days, di Robert De Niro e Miles Davis, dell'america', facce Tarzan insomma... però da qualche anno ho cambiato percezione rispetto a quello che mi piove da un Paese che si arroga il diritto di esportare il proprio modello di democrazia nel mondo ma 50 anni fa si è ucciso il proprio Presidente della Repubblica, peraltro regolarmente eletto dal popolo americano. Ah no, scusate, mi sono confuso: è stato quel buontempone di Lee Oswald, come mi hanno insegnato a scuola...

Ecco perché ora mi sta sul cazzo pure il Generale Custer, pure il Dream Team ha perso il suo fascino ed ecco perché non sopporto Halloween. Che peraltro detesterei pure se arrivasse dall'Australia, in quanto festa comandata. E io raramente amo obbedire.

Sono troppo italiano?

Du' schiaffi no, eh?

Se qualcuno si è lamentato del silenzio assordante di questo blog nell’ultimo mese, ha fatto metà del suo dovere. Anche perché le attenzioni sottratte a questa creatura sono state nel frattempo convogliate sul secondogenito (www.tripladoppia.com), portale di basket di cui sono diventato, mio malgrado, direttore responsabile. E’ stata un’estate lunga e divertente, faticosa. Qualche cifra: dal 28 luglio al 13 settembre ho preso un totale di 26 aerei per 46 ore di volo, 20.096 chilometri con la cintura di sicurezza allacciata. Cinquanta le ore di pullman e quattordici gli alberghi, dal meraviglioso T Hotel di Cagliari all’orripilante Satel in un paesino sperduto della Slovacchia. Sul mappamondo mi sono acceso in sequenza a Bormio, Parigi, Pescara, Poprad (via Praga), Varese, Danzica (via Varsavia), Cagliari, Sarajevo (via Vienna), Bologna, Varese, Helsinki, Milano, Schio e Adana (via Istanbul, col volo interno Turkish preso l'11 settembre). Quattro le sveglie alle prime luci dell’alba (quelle in cui mi sembra sempre di dover andare al poligono di tiro a sparare, come in pieno servizio militare), il viaggio più lungo il 14 agosto col triplo volo Danzica-Varsavia-Roma-Cagliari.

Sono tornato a Roma con più punti sulla carta MilleMiglia ma con meno risposte di prima: gli italiani, ad esempio, è certo che non li capirò mai e non solo perché mi fanno rappresentare per il mondo da Calderoli, Borghezio e La Russa: non tanto e non solo perché ai caselli autostradali fanno ore di fila perché non sanno che anche sul loro bancomat c’è l’opzione fast-pay che permetterebbe di accedere in un amen all’ingresso viacard. E non solo perché in prossimità delle festività natalizie chiedono a chi sta per viaggiare di comprare loro un biglietto della Lotteria Italia in qualche autogrill lontano. “Gianca, quando vai a Roma mi compri un biglietto? E uno magari mentre torni, anche a Roncobilaccio?”. Perché? Perché? Perché? C’è più possibilità? I biglietti degli autogrill rimangono sopra ed è più facile che vengano estratti dalla dea bendata?

La questione vera è un’altra, oltre a cercare di capire perché ci si precipita a fare la fila quando viene aperto l’imbarco di un volo che ha i posti sull'aereo già assegnati: in questi giorni tutti gli italiani hanno preso a giocare al Superenalotto, tra questi anche alcuni miei amici apparentemente al di sopra di ogni sospetto. Il tormentone è: “Oh, ma vuoi mettere, sono 90 milioni di euro?”. Ah già, perché nelle estrazioni in cui il jackpot era di 13 o 21 milioni la vita non ti sarebbe cambiata, se avessi vinto. Con 90 sì, invece. Come quelli che credono a quelli che ti vendono i sistemi "sicuri" per vincere al Lotto: già, perché se veramente l'avevi trovato te ne stavi 8 ore al giorno in una squallida tv privata?

D’altra parte vi parla uno che quando va da McDonalds prende il menu big da 6 milioni di calorie ma lo accompagna sempre con Coca Cola light per risparmiarne 30.

Non l’abbandono più il primogenito, da oggi, promesso. Dopo la pausa estiva, mi impegno a scrivere almeno una volta a settimana. Armate gli scivoli, ora. E a proposito di aerei, non credete a chi vi parla di crescita zero: in ognuno dei 26 aerei che ho preso in estate ho avuto nelle mie vicinanze un bambino di età variabile dai 6 ai 36 mesi, con ogni probabilità posseduto dal demone delle scimmie urlatrici baritoni: 26 minuscole entità che necessitavano dell'intervento di un esorcista, più che di un pediatra. Ma du’ schiaffi no eh? Normalità...

"Mi aiuto così, scrivendo cazzate"

Otto anni fa Stefano Corridoni, mio amico e collega all'ICSC, perdeva la vita con la sua moto sulla Roma-Ostia. Tornai a casa sotto choc, dopo aver saputo la tremenda notizia. Scrissi una cosa per aiutare me, non altri. L'ho riletta ieri e mi sono emozionato. E' per Stefano...

Roma, 26 aprile 2000 (un giorno senza senso).

Certo che ora, Gianca, ti sarà ancora più difficile capirlo, sarà quasi impossibile dare una risposta all'interrogativo che ti sei posto in tutti questi anni: Stefano viveva dieci anni avanti o dieci anni indietro rispetto a se stesso? La domanda era ricorrente e sempre senza risposta perché Stefano sfuggiva ad ogni mio tentativo di interpretazione della sua psiche: Stefano era l'unico amante della notte che dormiva con la musica accesa per avere compagnia, l'unico donnaiolo solitario, l'unico comunista anticomunista, l'unico sportivo per definizione indolente e pigro, l'unico figlio di McDonalds e della Coca-Cola che criticava selvaggiamente la cultura yankee, l'unico avanguardista musicale che rimpiangeva gli irripetibili anni '70, l'unico figlio dei fiori che parlava da pensionato, l'unico discepolo di Bill Gates ad anelare quotidianamente una sperduta e disintossicante tenuta di agriturismo in Toscana, l'unico intellettuale che non leggeva libri, l'unico a sapere sempre tutto, ad aver visto già tutto prima di tutti e meglio di tutti.
La sindrome di Corridoni era ben nota ai suoi amici: era un gioco da ragazzi fargli prendere una posizione scomoda e contraddittoria, bastava affermare con decisione e senza tema di smentita una tesi e lui, nel breve volgere di qualche minuto, avrebbe argomentato alla perfezione la tesi uguale e contraria. Nonostante fossimo affini per mille e più motivi, io e Stefano non siamo mai stati amici per la pelle, di quelle amicizie che ti senti e ti vedi tutti i giorni, o meglio... mi correggo lo siamo stati, siamo stati i due amici più inseparabili che siano mai esistiti sulla Terra ma solo nelle intenzioni: "Ciao Giancà, sabato ti chiamo e andiamo a bere qualcosa insieme", "Stefano, dopo passo a casa tua e magari mi fermo a dormire", "Gianca, vengo con te a New York", "Ste', vuoi venire con me a Panama?"... io e Stefano abbiamo organizzato vacanze, girato il mondo, attraversato l'oceano, dormito in tenda, trascorso memorabili notti insonni a raccontarci di tutto... abbiamo fatto tutto questo ed anche di più ma sempre e solo nelle nostre teste anche se la confidenza che avevamo raggiunto avrebbe fatto pensare il contrario.
Eppure mai, nessuno dei due, consapevole dei propri incorreggibili limiti di affidabilità, rimproverava niente all'altro: era parte del gioco darsi appuntamenti, progettare cose stupende insieme e poi trovare il modo più elegante di disimpegnarsi all'ultimo momento, eravamo due fuoriclasse in materia ed ora, brutto stronzo, mi hai lasciato da solo in questa valle di affidabili, puntuali e tutti d'un pezzo. Le nostre vite erano dilatate e per prendere le decisioni importanti ci sarebbe sempre stato tempo: la tromba, il modem, i dischi da masterizzare, io che ti dovevo insegnare a giocare a tennis, per tutto ci sarebbe stato tempo, nessuno ci correva dietro e se ci fosse corso dietro qualcuno peggio per loro, ci saremmo fatti superare con il sorriso sulle labbra.
Eravamo passati dall'essere le uniche due menti creative ed originali dell'Istituto ad impersonare i due vecchietti del Muppet Show, acidi ma sempre pronti a ricevere una dose garantita di altrui compatimento: forse la vita ci stava passando a fianco un po' troppo velocemente e tra rimpianti di adolescenza e speranze da padre di famiglia, non riuscivamo a trovare una qualsiasi posizione che ci sembrasse corretta... anche in questo caso mi lascerai solo e senza punti di riferimento, dovrò fare tutto da solo!

Per te, come per me, era sempre valido il motto "Lo sai come è fatto Stefano, no?"... Ultimamente eri scazzato in tutto quello che facevi e dicevi ma continuavi a sfuggirmi lo stesso tra acquisti di immobili e professioni di povertà, tra lavori faticosissimi e volontà di "non fare un cazzo dalla mattina alla sera": c'era solo un argomento sul quale ti dimostravi volutamente impreparato e vulnerabile così come lo ero io, la morte... ora anche su quella potrai atteggiarti a quello che ne sa più di tutti!

A noi resta un silenzio così irreale e così bastardo, un silenzio che comunque fa meno male delle parole, un silenzio che vorremmo riempire ma nel quale sappiamo di dover necessariamente passare attraverso, istante per istante, prima di poter ritrovare un millimetro quadrato di sorriso sui nostri volti…. Ora ti saluto perché sto diventando illeggibile e piagnucoloso: ciao Ste', non raccontare troppe cazzate che lassù sono meglio informati di quanto fossimo noi: a me rimane solo da pensare una cosa... prima di prende' la moto potevi pensa' a masterizzarti... e comunque credo di esserci arrivato in questo preciso istante, secondo me stavi dieci anni indietro rispetto alla tua vita e con quella maledetta moto stavi semplicemente cercando di recuperare il terreno che pensavi fosse perduto ed invece non lo era!

Ciao Ste', passo stasera a casa tua e mi fermo a dormire da te... come tutte le altre volte. Il maledetto tempo imperfetto non sarà mai imperfetto quanto me e le mie parole: ecco perchè in queste righe ho provato in tutti i modi a non utilizzarlo. So che la morte è più forte anche della mia retorica ma di tempo per utilizzare imperfetti e passati remoti ce ne sarà pure troppo. Oggi Stefano c'è, sta solo in ferie!

La grandeur parigggina, senti come appoggia bene

Parigggggi val bene una notte all’aeroporto di Orio al Serio e difatti io ce l’ho passata, disperato tra le centinaia di disperati in attesa di un improbabile low cost, stesi per terra traSchicchi-Mercedes coppie tristi che litigano ancora prima di partire e bambini frignanti e lamentosi (du’ schiaffi no, eh?).

A Parigggggi l’ultima volta c’ero stato nel 2004, con la Nazionale. Ricordo il saluto alla nazione Francia di Marco Gatta, il funzionario della Federazione, quando per tre volte in quindici minuti i solerti impiegati transalpini ci fecero cambiare la modalità di imbarco (collettivo, no individuale, no collettivo). Marco imbarcò la squadra e prima di sparire nel nulla si girò verso l’area check-in: “Primo giorno de lavoro per tutti qui, eh…”. Ricordo che viaggiammo insieme a Mercedes Ambrus, pornostar ungherese che ha spinto alla miopia diverse generazioni di italiani nell’ultimo ventennio.

La venne a prendere Schicchi a Malpensa, non a caso, conservo questa immagine di lei (1.60 di curve paraboliche) in attesa dei bagagli e noi a fianco a lei, in silenzio, ma anche in contemplazione mistica. Passò Gatta, immarcabile quel giorno. “Oh, mamma mia, non me dite che non ve siete mai scopata una così?”. Ci fissammo, nessuno se la sentì di rispondere.

Parigggi è sempre Parigggi, comunque, anche se ci capiti nella domenica in cui arriva il Tour de France e trovi un caos infernale, anche se per andare sulla Tour Eiffel devi aspettare un’ora e mezza sotto il sole (e infatti non ci vai), anche se la temperatura media oscilla intorno ai 35 gradi. A Pariggggi ho la netta percezione di essere un coglione: non che questo pensiero non mi sfiori anche ad altre latitudini ma in Francia la sensazione è veramente nitida: sarà perché non sai se parlare inglese, abbozzare quelle tre parole in francese o mantenerti italiano, che tanto poi ti capiscono. Così ti escono dalla bocca grugniti, bisillabi senza senso, sorridi senza motivo per ingannare l’imbarazzo da inadeguatezza.

I francesi hanno capito tutto: la loro grandeur può incartarti qualunque cosa, sono charmant, chic, alla mode. Loro non fanno colazione, fanno petit dejeuner, loro non vanno a compra’ il pane, loro camminano per il lungo Senna avec baguette. Loro non vanno a fare i maniaci sessuali pornografici erotomani, no, loro vanno a Pigalle.

Così, per la loro grandeur del cazzo, ho rischiato di diventare un serial killer. Sarà per il fatto che a Parigi impera la baguette e uno che non mangia formaggi e affettati la baguette se la dà esclusivamente in faccia, sta di fatto che a Parigi non mi trovo.

Movente numero uno: ristorante comunissimo vicino a Montmartre, fuori c’è scritto a caratteri cubitali “qui menu in italiano”. Infatti entro, mi siedo e chiedo il menu in italiano. “No, only in English”, mi risponde il simpaticone e poi giù un paio di battute sul fatto che sono italiano “Azzurro, o sole mio, pizza, mandolino, spaghetti”. Mangio poco e male, in due spendiamo 50.80 euro, con l’Evian (l’acqua a Parigi non è acqua, è una marca) a 4 euro. Ma non al barile, come il petrolio, ma al mezzo litro. Vado a pagare, tiro fuori la banconota da 50 euro e qualunque pezzente di ristoratore di questo mondo direbbe “Ok, a posto così”. Lui no, li meilleur mortacci sua, aspetta per venti secondi gli 80 centesimi che io fingo di non trovare in tasca.

Movente numero due: bar trascurabile su un boulevard qualsiasi, però si chiama “Maison de Chocolat”, mica il “Cornettaro de Viale Marconi”: due caffè e due mignon 17.50 euro, semplicemente perché ho dimenticato che a Pariggggggggi le paste le chiamano eclair. Ed è tutta un’altra camminata, come il Cuticchia che in Borotalco sceglie di chiamarsi Manuel Fantoni perché … “lo senti come appoggia bene… E Benvenuti? - chiede Verdone – Poi fa’ de’ meglio…”. L’eclair vale 5.50 euro, pure se lo mangi in due bocconi, il cannolo con la crema della Pasticceria Belli sita in Via Filippi da venti anni ne vale 0.60. Ce la incartano con la erre moscia, sicuro. E quando chiedo un po’ d’acqua, l’Evian mi arriva a 6 euro al mezzo litro. 12 euro al litro, 24 euro per una bottiglia di due litri. Da noi il nasone accontenta tutti gratuitamente, anche in Piazza del Pantheon. Attraverso la strada e in un supermercato compro un litro di Evian a 80 centesimi: il tipo è pakistano, a lui della grandeur glie ne frega il giusto.

Ho fatto l’italiano medio, in questi giorni, e non solo inteso come dito: sempre pronto a lamentarmi dei francesi e del loro snobismo, paragone perenne tra come siamo noi e come sono loro. La percentuale di romanità è esplosa, unico antidoto a sta cazzo di grandeur che ci avvelena il soggiorno parigggggino.

Ho voglia di euro 3.50 di pizza rossa dai Gemellì, ci si mangia un giorno. E riguardo alla brutalità capitolina espressa nei confronti di George Michael nel post precedente, ero esattamente in Place Vendome quando mi è venuto in mente lo strillo rivolto al Palaeur nei confronti del 39 enne Gregor Fucka dopo il quarto libero sbagliato: “A sette, non sei bono neanche per la primiera…”.

A Notre Dame non l’ho sentito… Però mi sono immaginato questo momento qui al cospetto del simpaticone di Montmartre, che nel suo ristorante esponeva la maglia di Zinedine… (abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene!)

Cappuccini, George Michael e spam

Inutile girarci intorno, il 70% delle persone che richiedono ogni giorno la nostra attenzione potrebbero tranquillamente finire nella cartella di uno spam virtuale (come le email intitolate 'enlarge penis', 'reduce penis', 'format penis', 'cut and copy penis'): se non succede è spesso per quieto vivere, per le pari opportunità, per il buon viso a cattivo gioco e per la botte piena e la moglie ubriaca (che non c'entra niente ma fa sempre la sua porca figura). Mi permetto di scriverlo perché la cosa sicuramente riguarda anche me, nel senso che molti sposterebbero anche me nella posta indesiderata, se potessero.

Oltre allo spam vero e proprio, ci sono una serie di informazioni che io solitamente accolgo con curiosità ma dalle quali rimango deluso, in particolare le previsioni del tempo e l'oroscopo.

Ieri mattina sul tg5 ho ascoltato con estrema attenzione le previsioni del tempo, se non altro perché mi trovavo a Bormio e la Valtellina si stava allagando: "su tutta la penisola sereno o poco nuvoloso, con possibilità di nubi stratificate nel primo pomeriggio e di rovesci piovosi anche a carattere temporalesco". Ciccio, però se mi escludi solo la siccità e la tempesta boreale sono capace pure io. Da un colonnello dell'Aeronautica mi aspetto qualcosa in più e invece ogni volta si lasciano aperte tutte le possibilità. Spam.

Capitolo oroscopo: sinceramente non lo cerco mai ma quando sfoglio un quotidiano mi ci va l'occhio, inevitabile. Quello dei Gemelli di martedì scorso su Repubblica recitava: "La Luna e Mercurio sono alleate contro di voi, giornata molto difficile". E la Kamchatka non mi attacca con 4 armate, come mai? Due pianeti coalizzati contro di me sono davvero troppo, tra l'altro ero appena sveglio e il solo pensiero di stare sul cazzo a un asteroide mi avrebbe messo di cattivo umore. Detto questo, ci sono due tipi di oroscopi che mi fanno impazzire, quelli estremi.

L'ipersintetico, tipo... Ariete: occhio. Toro: niente male. Gemelli: perchè no?. Cancro: e chi se lo sarebbe mai creduto?. Leone: ammazza che culo. E via andare (ma chi lo fa, un colonnello dell'Aeronautica?).

L'iperdescrittivo, tipo... Ariete: la scelta di cambiare città per lavoro ti sta condizionando eccessivamente, cerca di conoscere la tipa del terzo piano che ti sorride in ascensore e tagliati quei capelli che hanno preso una brutta piega. La Luna consiglia: cambia l'olio tra 500 chilometri e salutami Franco, se lo vedi.

Sempre a proposito di "messaggi" ricevuti nei giorni scorsi, in ordine sparso:

- Il mio amico Giorgio mi ha riportato una conversazione memorabile su un autobus di Roma. "Ma chi, George Michael? Quello ha preso più cazzi che cappuccini, in vita sua". Paragone crudo ma dà l'idea a parte il fatto che nella mia città sono maestri nell'abbattere in 5 secondi un mito della musica leggera. E tutte le mattine, quando bevo il mio amato cappuccino, il pensiero corre all'ex leader dei Wham.
- Sentita al bar del camp di Pescasseroli: "Oh, mi raccomando non offrire mai il caffè. Ma che c'hai nelle tasche, le vipere?".
- Ho visto in faccia per la prima volta il candidato repubblicano McCain. Sono fiducioso, ha la faccia di uno che una volta per tutte può portare questo pianeta allo sfacelo definitivo. Yes, he can.
- Gazzetta di ieri, titolo: "Perché il Papa è stato così duro con i preti pedofili?". In effetti... bastava un buffetto, una cazziata che se laricordano per 15 giorni e il trasferimento in un'altra parrocchia, proprio come accaduto finora. 100% Spam. Vergogna.
Diciamo che la vena varicosa posta dietro l'occhio (non più di 100 casi in tutto il mondo) e la fregatura rimediata a Dieci hanno un po' annacquato il concetto ma sarebbe sciocco, oltre che antistorico, mettere in discussione il Culo del Migliola. Definizione coniata ad arte da Bebbo e Vittorio anni e anni fa per descrivere piccole situazioni che come per incanto si sono rivelate a mio favore. Parliamo di piccoli eventi, non di vincite miliardarie, di vantaggi trascurabili ma che nella vita di tutti i giorni possono fare la differenza e cambiarti la giornata. Esempi: la bella ragazza accanto sul treno o in aereo, un torneo di tennis nel quale guadagni la semifinale sempre per assenza (e squalifica) degli avversari, una particolare congiunzione astrale che ti facilita l'esistenza. L'ultimo esempio del Culo del Migliola un mese fa: da dicembre sapevo che la data fissata in tribunale a Milano per la mia udienza-Dieci era il 3 giugno. Mi scocciava spendere 130 euro di treno per una cosa completamente inutile (nessuno di noi vedrà mai una lira, ovvio) ma a metà maggio è arrivata la telefonata della Federazione per la quale lavoro: "abbiamo fissato la conferenza stampa di presentazione dell'allenatore, 3 giugno ore 12 a Milano". Così le spese di viaggio non le ho pagate io.

Quel giorno ho pensato che il culo del Migliola, che negli anni scorsi mi aveva sedotto e poi abbandonato, stava tornando in tutto il suo splendore: giovedì scorso un'altra conferma. Volo Fiumicino-Malpensa, 2 ore di ritardo, viaggio terribile non fosse stato che il mio 25B mi ha permesso di conoscere l'inquilina del 25A, ovvero Jacqueline, modella di San Pietroburgo che passa sei mesi in Italia per sfilate e pubblicità. Poi ho aspettato che tutti uscissero dall'aereo per controllare, era l'unica donna piacente su quasi 100 passeggeri. Voleva dire che il culo del Migliola stava uscendo dal suo momento buio.Immag001

Così domenica pomeriggio, in procinto di tornare da Mestre in treno insieme a Bebbo e Marco, mi sono sentito di rilasciare una dichiarazione impegnativa: "Ragazzi, se tanto mi dà tanto oggi davanti a me si siede la donna della mia vita, è una sensazione fortissima, che non mi tradisce". Sensazione rafforzata dal fatto che la porta della carrozza numero 8, la nostra, si è arrestata esattamente di fronte a me. Roba che se ci riprovo mille volte... Fino a Bologna il posto di fronte al mio è rimasto vuoto, poi finalmente si è riempito.....

Col tipo che vedete nella foto, il profeta Isaia de noantri, un cristiano maronita persiano incrociato con un siamese: dopo essere sbottato a ridere davanti al prelato, gli ho scattato una foto senza farmi accorgere (forse) e poi l'ho osservato per tutto il viaggio. La donna della mia vita.

Ha tirato fuori due Nokia N95 da 8 giga, con uno messaggiava e con l'altro parlava, una macchina. Parlando lingue incomprensibili ai più, peraltro: con gli italiani era sbrigativo, con i suoi compaesani no, tanto che ho pensato che avesse una tariffa "Religion": tipo che con maroniti e ortodossi puoi parlare liberamente senza scatto alla risposta (e hai 10 benedizioni gratis al giorno) ma se chiami buddisti, musulmani e anglicani spendi un botto.

A Roma Isaia è sceso insieme a noi e si è dissolto nella folla, probabilmente per andare a comprare un dispositivo bluetooth per uno dei suoi Nokia. Io sono tornato a casa con qualche certezza in meno: il culo del Migliola non si discute, si ama, ma forse una messa a punto non guasterebbe, a questo punto.

PS. a proposito di titoli originali ho deciso di fondare un mensile di sport estremi (e io non vado neanche sull'altalena, tanto per chiarire) per poterla chiamare AMALI, ESTREMI...