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mercoledì 5 novembre 2014

Giancarlo Migliola: irresistibile o insopportabile?

Nelle ultime settimane due miei amici, la cui eterosessualità è fatta salva da plurime denunce per molestie, mi hanno guardato negli occhi e detto la seguente cosa: “Gianca, se fossi una donna credo che mi innamorerei di te. Il problema è che tu sei irresistibile da single e al limite dell’insopportabile quando ti innamori”.

Per qualche minuto mi è sembrato un gran bel complimento, cinque minuti dopo la vivevo come una critica molto severa e infine mi è tornato alla mente “Il Dittatore”, ovvero il film capolavoro di Sacha Baron Cohen, e il tipo che va in ospedale a ritirare l’esito del check-up: “Guardi, le dico la verità: le sue analisi sono Aladeen”. Il problema è che il Dittatore aveva quasi completamente uniformato il vocabolario di quello Stato al suo nome e quindi Aladeen voleva dire contemporaneamente aperto, chiuso, bello, brutto, dolce, salato, ecc..

Ecco, rispetto all’amore ma soprattutto al mio turbolento modo di viverlo, io mi sento tendenzialmente Aladeen. Nel senso che vale tutto. Lasciando stare l’irresistibile (che a occhio e croce mi sembra una cazzata), a cosa mi serve essere una persona interessante se poi al momento di “vivere” un rapporto mi incasino?
E’ come segnare da 3 col 76% ma poi sbagliare sistematicamente i tiri che contano. Come sapere che a destra batti tutti ma se ti mandano a sinistra ti trasformi in una palla persa ambulante. Come saper giocare divinamente a tennis, ma solo sull’erba. Come giocare una pallacanestro meravigliosa ma non trovare il modo di attaccare la zona. Come vincere Masterchef ed essere anoressico. Come essere un eccellente sommellier e ritrovarsi astemio. Non ti serve a un cazzo. Anzi.
L’attesa disillusa ti trasmette un ingovernabile senso di incompiuto, ti fa sentire una splendida “demo” ma il problema è che in cuor tuo lo sai che la versione definitiva sarà piena di bug. E allora insicurezze, facce spente, fantasmi del passato, cicatrici che nessuno vede ma chi mi si avvicina percepisce, alla lunga.

Dunque implodo, perdo giri, smalto, rivendico con ostinazione un modello di amore che temo sia uscito di produzione. Quello matto e disperatissimo, quello dei silenzi che parlano e ti raccontano tutto, quello dei cellulari lasciati sul tavolo della cucina con la suoneria bella alta perché nulla c’è da nascondere, quello che non ti raccapezzi più, quello del darsi, tutto, sempre, senza bisogno di chiedere nulla in cambio. L’amore che provano i bambini e non quello degli adulti responsabili e tutti di un pezzo, come mi ha fatto notare tempo fa mia sorella, l’amore degli sguardi, dei cenni di intesa quasi involontari, delle mani che si sfiorano, delle canzoni cantate a squarciagola in un letto dopo aver fatto l’amore.

Inseguo quell’amore lì e quindi mi incasino.

Nella modalità “irresistibile” vivo il mondo a distanza e lo coloro tutti i giorni di (auto)ironia, gioco sciolto, provo alley-oop, smorzate, rovesciate, fuoricampo, fughe solitarie, sprint improbabili a 20 km dal traguardo. E sti cazzi se poi perdo, mi sono divertito come un matto.
In quella “insopportabile” guardo il punteggio, amministro, temo il peggio, salvo il salvabile, protesto con gli arbitri, discuto col pubblico, me la prendo con la sfortuna e divento una merda. Perché ho paura di perdere.

Ma non la faccia, sticazzi.
Ho paura di perdere la persona che amo. Quella per cui respiro.
Mi succede così di rado di innamorarmi che quando succede, vorrei essere sicuro di non sbagliare nulla. E così sbaglio tutto. La rimessa che prima eseguivo a memoria diventa una palla persa, il tiro che segnavo a occhi chiusi va un metro corto, la stop-volley di rovescio si spegne sul nastro. E la palla la voglio un po’ prima, un po’ dopo, più alta, più bassa, più forte, più lenta. Come cazzo è possibile che nessuno mi capisce? Come?
Tutto questo schifo per la fottuta paura di sbagliare, anzi di perdere.
Di perdere te.
Meglio che torni a vedere le partite dal divano, dite?
NO.

Non se ne parla, perché magari a 97 anni ma prima o poi quel tiro io lo metterò, uscendo dai blocchi, col tempo giusto, senza neanche accorgermene, col sorriso stampato sulle labbra e la stecca di Marlboro sotto al braccio.


E poi verrò a prenderti. Andrà così.