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venerdì 16 novembre 2012

"Allora, Gianca, dicci, com'è il Cile?"

“Allora, Gianca, dimmi un po’, racconta, com’è il Cile?”. Quando ti viene rivolta questa domanda, magari da una persona che ti vuole bene e che ha piacere di rivederti dopo 15 giorni di tua Patagonia, non puoi ribattere “E che cazzo ne so?” come invece ti verrebbe di default. Ti sforzi allora di indugiare nella risposta più politicamente corretta che ti sia mai balenata in testa, evitando di pronunciare le seguenti parole, molto ben scandite: “Dunque io del Cile penso di non sapere nulla, sono un ignorante assoluto di tutto ciò che concerne il Cile, i suoi costumi, gli abitanti, il clima, le abitudini alimentari, il reddito medio, la musica preferita".

Ho soggiornato la miseria di 10 giorni in un paesino minuscolo che si chiama Puerto Montt mentre il Cile in altezza sviluppa qualcosa come 4.300 chilometri (solo 200 di larghezza, peraltro), una roba tipo Roma-Capo Nord. Perciò se proprio insisti io ti posso raccontare com’è Puerto Montt (brutta) ma non posso veramente sapere come sia il Cile perché per potertelo dire avrei dovuto vivere sei mesi a Santiago e poi prendere una signora macchina a noleggio e girarlo tutto in (tanto) lungo e in (poco) largo.

D’altronde, se tu fossi un giornalista cileno e dormissi dieci notti ad Afragola saresti in grado di dire com’è l’Italia e come sono gli italiani? Anche un veneto, un sardo, un toscano? Tutto questo mio veleno, ok esagerato, ha una sua motivazione profonda, altro non che è la sintesi di un fastidio percepito a pelle da anni: quello provato al cospetto di chi arriva in un posto e dopo 35 minuti attacca a pontificare (“no, qui funziona così, lì ve ce porto io, qui è meglio mangiare questo, mi hanno detto che quel museo fa schifo, c’è più traffico che da noi, ammazza piove sempre, ecc.”), ostenta disinvoltura, denota un senso dell’orientamento prodigioso, elogia i pregi e condanna i difetti degli indigeni. Temo che si tratti di un fenomeno abbastanza italiano e molto romano, questo, perché nel 2012 ho come la sensazione che il rischio di passare per coglioni o di andare all’avventura, alla scoperta, non sia più ammissibile.

Due anni fa, arrivato all’aeroporto di Orly, ho preso la navetta che porta alla stazione metro più a sud di Parigi: un tragitto di una ventina di minuti nella periferia, in un paesaggio non tanto diverso dall’hinterland estremo di Milano o dalle zone limitrofe al Raccordo Anulare. Una coppia di signori romani davanti a me, a metà del viaggio, ha convenuto sul fatto che “…però, Parigi me la immaginavo diversa…”. Non erano ancora arrivati nell’albergo di una delle città più belle e misteriose del mondo e già avevano dato un giudizio di merito, tra l’altro cannato completamente. Non potevano arrivare in hotel “scoperti”, magari chiedendosi “Chissà dove cazzo stiamo?”. NO!

Nel 2012, quasi 2013 (cit.) è vietato perderti, non puoi chiedere indicazioni a uno pratico, non puoi andare a culo nella scelta di un ristorante, non puoi camminare per un tragitto di 300 metri più lungo rispetto alla tua destinazione. Per quanto mi riguarda, a 20 come a 45 anni continuo a coltivare il fascino irresistibile della scoperta lenta e quotidiana di una città, di una strada, di un Paese: mi piace immaginare una cosa all’arrivo ma poi amo essere contraddetto e riconoscere che non c’avevo capito un cazzo. Sono stato a New York cinque volte, per un totale di circa 30 giorni, e le 3 ore più belle le ho trascorse senza guida, senza compagnia, senza cellulare, senza cazzi (tanto per capirci) e soprattutto senza meta: ho camminato affidandomi al richiamo di odori e rumori, sensazioni e istinti, tombini e vetrine, ammirando gente di tutte le razze, religioni, colori e mode. Non capendoci niente, per tutto il tempo, a cominciare da dove fossi e da dove stessi andando. Una cosa commovente, nel suo nonsense.

E invece no, che fai torni a casa dopo un weekend ad Amsterdam e non devi relazionare su che tempo fa, a che ora si mangia nei ristoranti, quanto funzionano i mezzi pubblici, se sono gentili gli olandesi. Non conta che hai beccato l’unico fine settimana della storia dei Paesi Bassi con lo scirocco dal Marocco, che hai trovato l’unico albergatore stronzo lasciato il giorno prima dalla moglie, che lo sciopero generale per quei due giorni ha paralizzato una città altrimenti modello di vivibilità. Torni a casa e pontifichi, ma neanche su Amsterdam, proprio sull’Olanda e qualche cosa pure sui Paesi del Nord d’Europa (Benelux, Germania, una faccia una razza).

Dunque, se avremo mai modo di incrociarci all’uscita degli “Arrivi” di qualche aeroporto fate finta di non conoscermi o perlomeno non fatemi domande. Non saprei darvi alcun tipo di risposta (a proposito, avete letto ‘sto post? Com’è navigare su Internet?).

lunedì 29 ottobre 2012

Il Bellaria, il terrore, mia sorella Letizia...

Non ricordo mai con piacere il mese di ottobre del 2006, ovvero i giorni del mio ricovero nel reparto NeuroChirurgia dell’Ospedale Bellaria di Bologna, le nove ore di intervento, il risveglio in terapia intensiva, i 20 giorni di degenza, l'angoscia di non riuscire a farmi dimettere e infine l’angiografia che ha confermato la mia guarigione e alla quale mi presentai con la maglia della Roma sotto al pigiama. L’unica volta che la Roma mi ha dato una gioia negli ultimi sei anni, mi viene da dire.

C’è però un flash di quei giorni tutt’altro che semplici che ricordo sempre con estremo piacere, perché mi dà ogni volta l’idea della qualità della famiglia nella quale ho avuto la fortuna di crescere. La sera prima dell’intervento, informato con forse anche troppi dettagli della delicatezza dell’operazione alla quale mi sarei dovuto sottoporre, chiesi un confronto al Primario del Reparto, accompagnato da mia madre e da mia sorella Letizia.

Ricordo minuti drammatici, minuti di attesa nei quali dovevo decidere cosa fare perché nel frattempo la tentazione di tornarmene a casa si era fatta sempre più diffusa: “Professore – obiettai timidamente – mi perdoni se le faccio perdere tempo ma visto che al momento non corro un pericolo di vita non so se sia il caso di affrontare un’operazione così rischiosa”. “Giancarlo – mi rispose il luminare cercando vanamente di tranquillizzarmi – non si deve preoccupare perché per noi questo intervento è abbastanza consolidato. Certo, si tratta di un’operazione difficile nella misura in cui dovremo farci largo nel suo cervello”.

“Non troverete grande resistenza…”, sussurrò Letizia riuscendo miracolosamente a farmi ridere e al tempo stesso convincendomi che operarmi sarebbe stata l’unica via percorribile. Poi resistenza ne trovarono, pure troppa, ma questo è un altro discorso…

venerdì 3 febbraio 2012

Altro che Misery, è Superbasket che non deve morire!

Dovesse veramente sparire Superbasket, se ne andrebbe un pezzo importante della mia vita. Anzi, professionalmente parlando, IL pezzo più significativo. Compravo Superbasket, incazzandomi selvaggiamente, dai primi Anni Ottanta, dai pallini feroci, dai "finitimi", dallo striscione del Palaeur “Aldo Giordani Servo dei Padani”, dalle prime foto NBA a colori. Non riuscivo a capire perché il complotto paventato da Giordani fosse stato messo in piedi solo nella stagione 1982-83, quella dello scudetto di Roma, mentre fosse tutto regolare quando negli altri anni a vincere erano Varese, Milano, Cantù e Milano. Ammetto che compravo Superbasket, all’epoca, per mancanza di alternative ma crescendo l’appuntamento con l’edicola al martedì mattina è diventata una consuetudine automatica.

La svolta, nel rapporto tra me e SB, c’è stata nel 1994, quando sono diventato il Direttore Irresponsabile di Coast to Coast e ho iniziato a vedere il mio nome citato sul mio settimanale preferito nel numero in cui la redazione decideva quale fosse il migliore house organ. Nel febbraio del 2000 è arrivata, in un pomeriggio apparentemente uguale a tutti gli altri, la telefonata che mi ha cambiato la vita legando, incredibile ma vero, il mio nome a quello di Superbasket. “Giancarlo, ti trasferiresti a Bologna per lavorare nella mia redazione?”.
La voce era quella di Franco Montorro, che conoscevo perché da un anno mi aveva chiesto di scrivere un paio di rubriche demenziali per SB. Dopo un paio di tentennamenti (mica facile cambiare vita e lavoro ripartendo da zero, quando hai 33 anni, ma se ti chiama la rivista che compri da una vita…), ho accettato: il 16 agosto 2000 ho varcato la porta della redazione di Superbasket, accolto da Claudio Limardi, e subito sono stato preso un attacco di diarrea fulminante: bell’inizio di merda, è stata la prima riflessione, la stessa probabilmente dei miei nuovi colleghi quando si sono resi conto che fino al 14 agosto 2000 nella mia vita avevo fatto solo il consulente informatico, e neanche tanto bene. Di giornalismo in me non c’era traccia...

Mi aspettavo che i primi mesi da rookie, a contatto con una redazione dalle personalità forti e dagli equilibri definiti, sarebbero stati complessi ma in realtà è accaduto il contrario: con Franco, Claudio, Stefano Benzoni, Stefano Valenti, Roberto Gotta ed Enrico Schiavina (qualche mese dopo è arrivato anche Mirco Melloni) si è creata subito una bellissima sintonia, probabilmente perché io sono entrato in punta di piedi e loro mi hanno accolto come si accoglie un consulente informatico romano scappato dalla Capitale per lo scudetto appena vinto dalla Lazio.

La confidenza l’abbiamo presa in pochi giorni, il rispetto non è mai mancato, e nonostante non ricordi una sola pizza “di redazione” nei sette anni trascorsi a Superbasket ho sempre pensato che quella fosse una bella “squadra” più che un gruppo, distinzione neanche tanto sottile e tanto cara agli allenatori. Per il resto, cosa dire? Ricordo l’emozione, durata almeno sei mesi, nel leggere il mio nome nella gerenza di SB, la dolce consapevolezza di essere pagato per seguire da inviato la Scavolini a Istanbul, l’emozione di intervistare Scottie Pippen e Allan Houston, la chiusura notturna della domenica tanto fastidiosa quanto affascinante, le tante risate in redazione per un comunicato stampa impresentabile, per la brutalità di un collaboratore, per diverse situazioni irriferibili qui sopra.

Sono stati sette anni indimenticabili, per me, a contatto con professionisti veri, con gente che di basket si alimenta voracemente, 24h sette giorni su sette. Roberto Gotta e il suo ingovernabile genio a tutto campo, Stefano Benzoni e la sua anima candida e retro’ (Benzo ha appena abbandonato i vinili per i cd, guarda ai dvd con diffidenza e dei blu-ray preferisce non sapere nulla), Stefano Valenti e la sua straordinaria capacità di leggere nei fatti e nelle persone, Enrico Schiavina e la sua (sottovalutata) onniscenza su tutto ciò che non è basket di vertice, Claudio Limardi e la sua irreale capacità produttiva (ha una famiglia smisurata e meravigliosa, va a correre tutti i giorni e tutti i giorni riesce a scrivere diversi pezzi belli, precisi e documentati), l’”autismo” di Mirco Melloni che ti sa dire in tempo reale il plus/minus di John Starks al secondo anno di high school. In più Franco Montorro, il mio primo direttore, che non finirò mai di ringraziare per avermi voluto a tutti i costi a Superbasket quando il mondo gli chiedeva chi diavolo fosse questo di Roma che scriveva cose stupide.
Potrei raccontare decine di aneddoti divertenti, citando storie e personaggi più o meno celebri, ma mi saprebbe di sacrilegio. La redazione di SB, per come la ricordo, la porto tutta nel mio cuore ed è così esattamente dal febbraio del 2007, da quando cioè ho avuto la brillante idea di andare via.

Erano iniziati i primi problemi economici, ovviamente niente a che vedere con quanto sta accadendo ora, ma ho iniziato a rimpiangere l’atmosfera di quella redazione dal giorno in cui l’ho lasciata, ben prima che la mia esperienza a Dieci si rivelasse un… fallimento. Il grido di dolore lanciato da Claudio in questi giorni ha già scosso l’ambiente della pallacanestro italiana e vari personaggi ben più importanti di me hanno già espresso il sentire comune: non si può fare a meno di Superbasket. Non si può. Giusto. Sacrosanto, anzi. Nessuno può saperlo meglio di me, che Superbasket l’ho vissuto da lettore adolescente ed incazzato, da abbonato pluriennale, da praticante, da giornalista professionista e poi nuovamente da collaboratore, fino a qualche mese fa.

Se muore Superbasket, insomma, sparisce un pezzo unico della nostra pallacanestro e per quel che mi riguarda si chiude la parentesi più bella della mia vita.

Forza ragazzi, allora: continuate anche per me!

lunedì 30 gennaio 2012

Cose difficili da respirare, se non ci sai fare, se non puoi capire...

Qualche anno fa, su questo blog, mi divertii a buttar giù un elenco di cose mai fatte o provate nel corso della mia vita, per paura, pigrizia, scarso interesse, pudore, sfregio, tigna, ecc. Mi resi conto solo dopo aver compilato e poi letto quella lista di aver condotto una vita complessivamente pallosa ma l’aspetto più doloroso della vicenda è arrivato qualche giorno fa quando mi sono messo a pensare alle cose che ho iniziato ma non finito, a quelle che avrei potuto fare meglio, a quelle lasciate incompiute per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa (ci si batte il petto).

Non parlo tanto dell’Università, che in pratica non ho iniziato avendo dato un solo esame prima di partire per il servizio militare, ma di tutte le passioni avviate con grande entusiasmo e mai coltivate fino in fondo. Vivo di musica, essenzialmente, ma non ho mai pensato seriamente di imparare a suonare uno strumento e pure la splendida batteria elettronica della Yamaha acquistata anni fa in un momento di furore agonistico è praticamente rimasta sotto cellophane. La mia esistenza è scandita dal cinema ma non sono mai andato a fondo di una passione così vibrante, limitandomi invece a guardare centinaia di film al cinema e in dvd. Gioco con i videogames da decenni ma non ne ho mai finito uno e al calcio con la mia Nigeria prendo schiaffi sistematicamente da quando non ci sono più Babangida e Agali. Continuo a comprare decine di libri che poi puntualmente non ho tempo di leggere. Ho lavorato per dieci anni come programmatore e nonostante mi fosse stata affidata in gestione la procedura più strategica del Sistema ho fatto di tutto perché mi venisse sfilata. Non mi piaceva quel lavoro e infatti poi sono diventato giornalista ma tutti si sorprendevano all'epoca di come mi fossi fatto sfuggire quell'occasione colossale per fare carriera.

Sono stato (meravigliosamente) per sette anni a Superbasket ma ultimo nelle gerarchie sono arrivato e ultimo sono rimasto, come peraltro penso ancora oggi fosse giusto visto il valore dei miei colleghi. Ho giocato tanti anni a tennis, anche a livello agonistico, ma non ho mai pensato di fare un passo oltre anche se venivo accreditato di un discreto talento. Ecco, sto fatto del talento più che gratificarmi mi infastidisce: tre anni fa una persona che lavora nel mio ambiente mi ha riportato quanto uno dei giornalisti sportivi italiani più famosi gli aveva detto sul mio conto: «E’ uno molto bravo, gran bella testa, ma non mi spiego perché non abbia fatto carriera». Ecco, io in realtà non penso di essere così bravo ma so che se anche lo fossi certamente non arriverei mai al vertice della piramide. Mi manca la cattiveria necessaria, la dedizione assoluta, lo studio matto e disperatissimo, la metodica rigida e le emozioni tenute a freno: per me sul 30-0 il game è già vinto, se ho fatto pure una smorzata faccio la ruota del pavone e sticazzi del punteggio, se mi è capitato di scrivere un buon articolo ho piacere che lo legga chi mi vuole bene e non provo a rivendermi a chi conta realmente. Per me conta l’attimo, la gioia del momento, mi siedo, mi accontento, mi piace guardarmi attorno, sentire il calore di chi mi vuole bene.

Non ne faccio una questione di “captatio benevolentiae” latente o di incapacità di fare marketing di e con me stesso: è proprio un fatto di tenuta mentale e psicofisica, di forza di volontà mista a cinismo che ti fa puntare un obiettivo e poi ti ci porta quasi per inerzia. Io non sono così: io campo sull’ultimo minuto, sul rimpallo favorevole, esco sul cordolo all’ultima curva in derapage, studio 300 pagine la notte prima dell’esame, metto dentro sette attaccanti sull’ultimo calcio d’angolo perché fino a quel momento ho pensato ad altro, mi preparo per uscire sette minuti prima dell'appuntamento.

Se non esistesse l’ultimo minuto, io di fatto non esisterei.

Ho sempre sorriso negli anni scorsi ripensando a questa mia veste “romantica” e tutt’altro che pragmatica, controcorrente e per questo ancora più apprezzabile in questo momento storico: ora che però ho la sensazione di aver applicato spesso questa mia “sufficienza” anche alla sfera affettiva della mia vita so di averla combinata grossa. Amori, amici, conoscenze, colleghi, parenti, tutti vanno coltivati e innaffiati giorno per giorno, meticolosamente, altrimenti anche in quel caso rischi di vanificare il talento, e in questo caso l’affetto, che ti è stato dato in bonus. Non mi sento un fallito, credo ci sia ancora tempo per rimediare, ma un po’ una merda sì. E’ l’approssimazione che mi frega, alla fine, ma l’autocoscienza dei propri limiti rappresenta già una buona base di partenza per chi vuole svoltare.
Diventerò un ometto, promesso, datemi solo un po' di tempo per crescere...

mercoledì 18 gennaio 2012

Vita di palestra, altro che Palestra di Vita...

Ci sto provando, per la quarta o quinta volta in vita mia, giuro che ci sto provando un’altra volta. Da qualche mese mi sono iscritto nuovamente a una palestra o meglio, per attutire il trauma, invece di versare una retta mensile ho scelto di pagare “a entrata”.

Significa che ogni volta che varco l’ingresso “lasciando ogni speranza”, la mia chiavetta si alleggerisce di otto euro, più o meno quelli che vorrei mi fossero devoluti in cambio del mio sacrificio. Il fatto è che a me piace tanto correre e per correre d’inverno a Faenza bisogna avere tanto coraggio. Troppo, nel caso di uno che ha freddo solo a sentirne parlare. Così, vado in palestra, ogni tanto, per bruciare calorie e ritrovare una parte di me stesso attraverso una forma improvvisata di meditazione. E sì perché io in palestra, che sia Roma, Bologna, Milano o Faenza, non parlo. La modalità Silenziosa inizialmente non è stata una scelta e anzi ricordo che soprattutto nella palestra di Casalecchio avevo provato a stabilire uno straccio di rapporto umano con gli altri avventori.

Fu un rientro anticipato nello spogliatoio a segnarmi, temo per il resto dei miei giorni: “Quando esco con una la prima sera metto subito le cose in chiaro: ingoio e culo, sennò non se ne fa niente”, disse lui con marcata calata bolognese. Il tipo mi guardò in cerca di conferme, che io non potei dargli. In realtà io la prima sera mi ritenevo soddisfatto quando capivo che ce ne sarebbe stata una seconda. L’altro tipo, nella stessa sessione di improvvisato brainstorming nella quale mi ero cacciato avviando un discorso sul basket, provò a vendermi una quindicina di chili di proteine contenute in un fustino da detersivo: in quel momento ho realizzato che la mia insofferenza alla palestra si sarebbe acuita e non smorzata, se avessi provato a socializzare. Non mi sento né migliore, né peggiore di chi decide di trascorrere un paio d’ore al giorno in una palestra, davvero. Mi sento solo diverso, consapevole fino in fondo però di essere “mosca bianca”.

In genere gli 8 euro li spendo correndo sui tapis-roulant e pedalando in cyclette di ultima generazione, di quelle che in tempo reale ti informano rispetto alle calorie consumate, i metri percorsi, la velocità media, il tempo rimanente, la temperatura dell’olio e la pressione delle gomme. Troppe informazioni, tutte insieme, per la testa di uno che sta provando a sopravvivere. Il tempo, però, non passa mai. Mai. Neanche se mentre corro penso alle cose più assurde (solo nell’ultima settimana, tecnica di estrazione della radice quadrata di un numero, filmografia completa di Valerio Mastandrea, numero e nome delle donne baciate nei precedenti 44 anni), neanche se mi concentro ad osservare movenze felpate e sguardi ammiccanti delle ragazze/donne presenti (“le donne in palestra, guardarle fisse”). Di mattina l’età media è intorno ai 76-77 e in quell’atmosfera morbida da ginnastica dolce mi trovo più a mio agio rispetto al mix tra un rave e una sfilata di moda che mi circonda a partire dalle 18.00. Ai pesi mi avvicino con sospetto ma devo riconoscere, per onestà intellettuale, che i benefici sono evidenti sui corpi scolpiti di chi si abbandona per quarti d’ora interi a quelle macchine infernali.

Io invece me ne sto lì, per conto mio, nel silenzio tipico del pesce fuor d’acqua che sa di essere osservato. Vuoi per l’abbigliamento improbabile anche solo per l’accostamento cromatico, vuoi per i 44 anni che mi spingono leggermente fuori target, vuoi per l’abbigliamento “Italia Basketball” che non rende giustizia alle mie attuali condizioni fisiche, vuoi perché è raro vedere uno che entra, pedala, corre, non caga nessuno e se ne va. Otto euro mi costa tutto questo e quando esco dalla palestra, ritrovato il sorriso del reduce del Vietnam che sa di aver fatto fino in fondo il proprio dovere, non capisco mai quale sia stata la fatica più grande: se quella di perdere peso o quella di rimanere non contagiato da un pianeta (proteine limitrofe al doping, splendidi perizomi da uomo, barrette energetiche, diete a zona, beveroni improbabili, specchi consumati, ecc.) che per quanto mi riguarda temo rimarrà inesplorato.

Senza rancore, eh…