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mercoledì 9 aprile 2014

La MIA New York, dietro la Brigata dei Pompieri ma davanti a Spongebob

Riparto da New York senza aver ancora capito se i quattro giorni trascorsi da solo a cavallo della Trentunesima (che poi detto così…) siano durati quattro anni o quattro minuti. D’altra parte non avevo neanche chiaro se in questi giorni volessi perdermi o ritrovarmi e allora quando è così New York è il posto perfetto perché di suo tende a non darti punti di riferimento, strade parallele e perpendicolari a parte.

New York è tutto e niente, è miseria e nobiltà, è orgoglio e pregiudizio, è Simon e Garfunkel: rimane aperta 24h ma ti fa vedere le vetrine colorate, se sei un cazzo di turista dentro non ti fa mica entrare. In questi giorni non ho visitato un museo, un teatro, una Statua della Libertà, un grattacielo. Ho però camminato fino a sfinirmi attraverso Avenue e Street, spesso sbagliando strada e quindi ritrovandomi in situazioni già vissute, metafora che peraltro mi perseguita da 46 anni. Ho bevuto un succo di lamponi, pere, carote e malva 100% bio-organic nel cuore di Chelsea con due uomini di mezza età che si baciavano teneramente e mezzo blocco dopo ho dovuto spiegare a una cinese che il suo sex message non mi interessava.

Ho visto albe e tramonti, ho preso acqua sulla Fifth Avenue e sole a Central Park, mi sono regalato Ground Zero di domenica sera alle 23.00, deserto surreale e commovente, cercando senza esito di ricordarmi il monologo di Edward Norton de “La 25a Ora”. Mi sono perso e ritrovato ogni dieci minuti nel pirotecnico vuoto pneumatico di una città che non ti lascia mai solo ma che non ti fa mai compagnia. Proprio quello che volevo, il motivo per il quale ora sono a 11.788 metri, sull’aereo che per la sesta volta mi riporta a casa da JFK, e già sto pensando a quando potrò tornare. Avere un milione di opportunità, non coglierne una senza qualcuno che ti presenta il conto per questo. Tornerò, presto: per continuare a non vedere nulla e a sentire tutto, a torturare la carta di credito, a sorprendermi ancora per il “total refill” nei fast food o per l’assenza di compromessi di una città che ti ubriaca di sorrisi dai denti bianchissimi, di “enjoy” e di “appreciate” e poi ti risveglia col dito medio di un tassista pakistano furente perché non cammini sul marciapiede.

New York mi spiazza, col crossover suoni-luci-colori-razze-odori che ti fa perdere l’equilibrio, ti disorienta e ti manda al tappeto. E allora io per evitare che l’arbitro mi conti cammino per ore, giorni, a vuoto, a caso, nelle strade dove tutto è saturo: incamero emozioni, incasso clacson, metabolizzo burriti, schivo a fatica foto con Capitan America ma soprattutto non mi stanco mai. Non mi annoio mai, forse perché a ogni angolo ritrovo citazioni cinematografiche a me care. Non mi stanco di emozionarmi al cospetto di questo nulla cosmico, all’opportunità che New York ti concede di non ritrovare a distanza di pochi giorni le stesse persone, gli stessi odori, lo stesso clima, la stessa luce. Tutto è diverso eppure tutto sembra identico.

Io, tra Battery Park e il Queens, mi ritrovo. Sempre, spontaneamente, finalmente: mi ritrovo perché so di riconoscere la confusione, le luci intermittenti, i vuoti e le contraddizioni che day by day popolano la mia testa.

Ecco perché New York è casa mia.
“Mi prendo questa realizzazione all'americana, è qui che vivo, dietro la Brigata dei Pompieri 47, bene, ma davanti a Spongebob: Hello America!” The Weatherman