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lunedì 5 dicembre 2011

Ancora su Dieci...

Sono dovuti passare due anni prima che avessi voglia di raccontare i sei mesi più allucinanti della mia vita: mi riferisco a quelli vissuti a Milano da febbraio a giugno 2007, un periodo che (purtroppo) non dimenticherò mai e che oggi scendendo nella Stazione Centrale mi si è riaffacciato con discreta violenza.

La decisione di lasciare Bologna e una casa appena comprata non fu semplice ma a Superbasket le cose si stavano mettendo male e la proposta di Ivan (Zazzaroni) mi sembrò convincente, soprattutto dopo il primo colloquio a via Vitruvio (“si fidi di noi, siamo persone serie”, mi rassicurarono). Mi veniva affidata la responsabilità della sezione Varie, 24 delle 48 pagine totali di Dieci, e il progetto di dare vita a un quotidiano moderno, aggressivo, diretto, colorato, mi piaceva.

Bastò un colloquio per farmi firmare un contratto a tempo indeterminato da capo-servizio: il 20 febbraio mi trasferii a Milano, temporaneamente appoggiato in una casa dalle parti del Lorenteggio, con un autobus e due metro ero agilmente in redazione. L’appartamento faceva parte di un palazzone con 198 scale, probabilmente ero l’unico italiano dell’edificio, sicuramente l’unico incensurato: dopo due sere di malinconia tutta meneghina mi era già tutto chiaro, avevo fatto una cazzata perché non era quella la città dove avrei voluto vivere. Né la vita che avrei voluto vivere.

Mi feci forza pensando che due giorni non costituivano un lasso di tempo sufficiente per tracciare un bilancio, le cose migliorarono quando trovai un monolocale dislocato a 300 metri dalla redazione per la modica cifra di 800 euro mensili. Se non altro, entrando a Dieci alle 11 e uscendone tutti i giorni (TUTTI) alle 23.30 avevo casa a un passo: dove solitamente tornavo, accendevo la tv, mi facevo una camomilla con gli Oro Saiwa e andavo a dormire. La mattina dopo si ripartiva nuovamente, per un’edizione piuttosto squallida di “Ricomincio da capo”, senza Andie McDowell da far innamorare peraltro.

La zona era quella della stazione, il che si traduceva in prostitute (sessantacinquenni) 24h davanti al portone del mio palazzo, gente che amabilmente pisciava in strada e una frequentazione degna di uno primi film di Spike Lee, quelli incazzati. Pazzesco, se guardavo una negli occhi questa mi sorrideva e mi faceva la lingua: mi illusi di essere diventato irresistibile, poi capii che c’era una moneta da inserire nell’apposita feritoia.

Ho iniziato a detestare Milano ancora prima che il dramma professionale si compiesse, perché gli stress (parcheggio, traffico, confusione, file, ecc.) erano quelli tipici della grande città e allora tanto valeva vivermeli a Roma e non a Milano. Mi fu ancora più evidente che avevo fatto una cazzata, anche per i forsennati ritmi di vita del quotidiano ai quali non ero abituato, né volevo abituarmi. Dal 5 aprile in avanti la situazione precipitò: prima un bonifico arrivato sul conto senza un giustificativo ed emesso da una fantomatica Hopit di Roma, poi i primi ritardi nei pagamenti degli stipendi e l’inizio della fine.

I soldi ovviamente non sono mai arrivati (neanche ora che ho stravinto la causa),in compenso arrivarono una cinquantina di scuse tra le più disparate e fantasiose, un numero di CRO finto per convincerci a lavorare ancora, dilazioni di pagamento annunciate e mai onorate, quotidiane prese per il culo intervallate da fraterne rassicurazioni. Venne fuori che i soldi (…) per l’operazione Dieci non li aveva messi la famiglia Donati, con la quale avevo firmato il contratto, ma una finanziaria romana di nome Hopit, che faceva capo alla famiglia Caso. Il cui curriculum (altri giornali aperti e poi chiusi senza pagare nessuno, processi in corso in Romania per riciclaggio di denaro sporco) ci aprò gli occhi definitivamente: eravamo dentro a una truffa. D’altra parte gli elementi per capire che qualcosa non andava per il verso giusto c’erano, dal principio: un responsabile della pubblicità la cui età sorvolava intorno agli 80 anni e che un giorno alla mia domanda se avessero contattato la Nike mi rispose: “Ma perché, lei ha i numeri di telefono della Nike…?”. Lo stesso un giorno mi chiese se poteva avere dei biglietti omaggio per una partita ad ingresso gratuito. Zichichi, questo…

Ci erano state garantite 10-12 pagine di pubblicità al giorno, andava bene quando ne avevamo 2-3. L’edicolante sotto la redazione, non pagato, iniziò a negarci i quotidiani; i collaboratori (molti nostri amici, molti miei amici… scusate, scusate, scusate) iniziarono a non scrivere più; la Telecom ci staccò i telefoni; il manager di Roby Baggio, nostro testimonial, iniziò a farsi vedere con una certa insistenza; i grafici minacciarono lo sciopero; i fornitori (agenzie, fotografi, ecc.) interruppero l’erogazione dei servizi.
Ricordo le buste paga ritirate (ma mai onorate, ovviamente tutte completamente sbagliate) in un ufficio al centro di Roma, senza l’intestazione sul citofono e sulla porta la scritta in caratteri cirillici. Ricordo il nostro editore che uscendo dal giornale il giorno del nostro primo sciopero mi disse: “Così state facendo morire il giornale”. Noi, eh, non te che non ci paghi uno stipendio da 4 mesi e hai fatto sfrattare diverse persone… Ricordo tante cose, che però non si possono scrivere.

In tutto questo marasma ogni giorno c’era un giornale da fare, e da fare bene, perché quello era l’unico modo per garantirci uno straccio di sopravvivenza: era quello il tasto sul quale quei bastardi spingevano, perché anche se le cose vanno di merda e sai di avere a che fare con dei farabutti non è facile trovare il coraggio di dire basta e quindi aspetti di vedere la fine.
Intanto i mesi passano e tu lavori per arricchire dei delinquenti: con orgoglio posso dire che dal 10 marzo ai primi di giugno Dieci fu un prodotto più che degno, indipendentemente dal fatto che veniva realizzato in condizioni impossibili. Vero, c’era gente che scriveva la minuscola dopo il punto, a Dieci, ma c’era anche tanto talento reclutato dallo scout infinito di Ivan.

A proposito di Ivan, sono certo che sia stato vittima di questo schifo e non carnefice: provò in tutti i modi, con le buone e talvolta con le cattive, a farci andare avanti quando andare avanti era assurdo e poi mollò ai primi di giugno con un’uscita di scena teatrale. Alla Zazzaroni, insomma. Io rassegnai le dimissioni il giorno dopo e di fatto chiusi una parentesi che complessivamente mi costò un posto di lavoro, 25.000 euro e qualche anno di vita.
La causa intentata alla Hopit l’ho stravinta anche perchè la controparte ha nominato uno studio legale, si è fatta anticipare le spese legali e poi è sparita. Geni del male, davvero, a cui potevamo fare male solo bruciando la macchina o col rapimento di un loro bambino. Pare che in Italia non si possa fare, però, mentre si può fare che questi stessi signori invece di stare in galera pontifichino su Raidue e continuino a comprare altre testate. La cui fine già conosco, purtroppo, e questa copertura omertosa e generalizzata rispetto a questo schifo è un’altra vergogna, ai miei occhi.

Il bello di Dieci restano 40 sfigati come me che ho conosciuto in quei mesi: come spesso accade nelle situazioni estreme certi rapporti si cementano in fretta e sopravvivono al tempo e alla distanza. E per noi che ci siamo ritrovati in mezzo a una strada, Via Vitruvio 43 è stato come il Vietnam.

Ricapitolando: a Milano ho lavorato sei mesi, tutti i 31 giorni del mese di marzo per 123 ore di straordinario ma senza mai prendere un centesimo. Con le donne di facili costumi sotto casa ma senza i soldi per poterci andare. Il primo maggio andai al drugstore della Stazione a fare spesa, da solo, e la mia tristezza raggiunse livelli mai più sperimentati. Chi mi venne a trovare disse che avevo cambiato faccia. Non in meglio.

Ecco perché oggi scendendo alla stazione di Milano ho provato un discreto sollievo nel pensare che meno di cinque ore dopo mi sarei nuovamente allontanato da quello schifo. E ovviamente non parlo della città, che pure continua a non piacermi per niente.

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