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lunedì 5 dicembre 2011

Giancarlo Bernardino Migliola, tra Nuoto e formaggi

Come scrive Rocco Tanica nella prefazione del suo libro, io credo che Giancarlo Migliola sia la risposta italiana a chi mi chiede come mi chiamo.

Detto questo, faccio ancora grande fatica a 40 anni a realizzare chi sono.

Riporterò all’uopo episodi non necessariamente salienti occorsi dal 27 maggio 1967 al 14 marzo 2008.

A 0 giorni mi chiamano Giancarlo, gran bel nome. ma per pareggiare il conto di secondo scelgono Bernardino. Roba da vergognarsi per tutta la vita.

A 4 anni ero già bello che viziato, unico figlio maschio dopo Letizia e Roberta. Mi sforzavo di fare il figlio perfetto, i capricci erano al minimo salariale ma tendevo a esagerare nei panni del capo-famiglia in pectore: mi sinceravo che papà e mamma avessero preso le chiavi di casa, quando ci avventuravamo nel traffico di Roma mi preoccupavo che ritrovassero la strada di casa. Poi dice che a uno je vengono i capelli bianchi a 25 anni…

A 5 anni la mia prima resistenza al potere precostituito, l’unica andata a buon fine. Non volevo mangiare prosciutto, salame e formaggi, non sopportavo di sentirne l’odore: è così ancora oggi, 14 marzo 2008. “Quando farai il militare vedrai che imparerai a mangiare tutto”, “Pensa ai bambini che muoiono in Africa”, “Se mangi questo ti compro dieci pacchetti di figurine Panini”, “fai un fioretto a Santa Rita”. Sarà che ho fatto il militare a Roma, sarà che sono devoto a San Bernardino, sarà che a forza di pensare ai bambini dell’Africa mi sono iscritto all’Amref, sta di fatto che a 40 anni sono ancora vivo e bello in carne. Sempre più orgoglioso di aver resistito a quelle lusinghe/ricatti/minacce.

A 6 anni dicevo a tutti “arditt ardott” ma nessuno ha mai capito cosa significasse. A chi mi chiedeva cosa volesse dire, la mia risposta era: “Una cosa bella”.

A 11 anni mi atteggiavo perché sapevo dire le parole al contrario, un’abilità che come potrete immaginare mi sarebbe tornata molto utile. Come quella, sviluppata anni dopo, di memorizzare le targhe di tutte le auto che incrociavo.

A 12 anni andavo in giro vestito come un soggetto, da ragazzino sfigato che al massimo della trasgressione sfoggiava un paio di polacchette mentre i coetanei je davano de Vera Tolfa e de Moncler.

A 13 anni mi attaccavo ai muri di casa per evitare che mi portassero a nuoto. Un istruttore mi buttava in acqua e mi mollava lì, io mi attaccavo a tutti quelli che passavano nei dintorni, agonisti compresi, e tutti i genitori dall’altra parte del vetro si ammazzavano dal ridere. Ma vaffanculo va. (che tra l’altro io sarei pure umbro e poco allenato all’acqua).

A 14 anni era fondamentale per me superare tutti quelli che mi camminavano a fianco. Vincevo sempre, confidavo diventasse disciplina olimpica.

A 15 anni mi rifiutavo di vestire i panni del chierichetto all’Oratorio San Paolo al contrario di tutti i miei amici dell’epoca. Fu il secondo rifiuto della mia vita, dopo quello alimentare, ma nonostante tutto facevo parte della squadra di calcio dei chierichetti, da fuoriquota. Il campioncino dei spazi stretti.

A 16 anni vincevo lo scudetto allo stadio Olimpico, da solo, 15 maggio 1983, Roma-Torino. L’unica stagione nella quale mi abbonai in curva sud, le 35.000 lire meglio spese in vita mia.

A 17 anni mi facevo bocciare perché non studiavo e pur di non fare una figuraccia avevo ideato la sega sistematica, settimane intere a piangere in giro per Roma o a dormire in soffitta per poi tornare a casa e recitare. La scuola chiamò casa un paio di volte, mia madre sperò che mi stessi drogando e invece no, ero perfettamente sobrio mentre mi facevo bocciare in terza liceo. L’unica bocciatura senza insufficienze ma solo N.C..

A 18 anni baciavo Carla, in pullman, durante la gita scolastica a Rimini. Ancora devo capire dove ho trovato il coraggio.

A 19 anni mi diplomavo con 56/60, roba da inginocchiarsi davanti alla Sud come Bruno Conti. Peccato che Letizia fosse uscita dallo stesso liceo con 60/60 e stesse per laurearsi in Lingue con 110/110 e bacio accademico. Ma a Lingue, il bacio non è rischioso?

A 21 anni buttavo via un po’ di tempo alla Sapienza di Roma e poi partivo per il militare.

A 26 anni fuggivo in Francia per 15 giorni con Angela, che tecnicamente era la fidanzata promessa sposa di uno dei miei migliori amici. Io stavo ancora con Carla, sempre tecnicamente. Il periodo più bello e più drammatico della mia vita.

A 27 anni mi inventavo Coast to Coast insieme a Bebbo.

A 28 anni mi operavo a Brunico, quarto intervento al ginocchio e carriera finita. O meglio, mai iniziata.

A 29 anni compravo la prima moto della mia vita, anzi la Moto’, dell’Aprilia. Del motociclista non ho mai avuto nulla, in effetti, me lo confermò il meccanico che una volta mi disse, incazzato. “Oh, guarda che stai sul cavalletto”. Gli avevo appena chiesto di togliermi la moto dalla pedana di lavoro, pensavo ci stesse ancora mettendo le mani. Erano passati due anni dall’acquisto, non mi ero mai accorto che la Moto’ fosse dotata di un cavalletto centrale.

A 30 anni volavo a New York per vedere la prima partita NBA della mia vita, al Madison Square Garden. Pelle d’oca a Times Square, appena sceso dal taxi. Fino a quel momento per me il Madison voleva dire Via Chiabrera, di fronte al bar dei sardi che poi ho scoperto essere un covo della Banda della Magliana.

A 31 anni iniziavo a rovinarmi la vita inseguendo una donna già impegnata e virtualmente irraggiungibile.

A 32 anni iniziavo a vestirmi come un rapper andato a male. Non ho più smesso.

A 33 anni mi trasferivo a Bologna e cambiavo vita, diventando giornalista di Superbasket. Rivista che acquistavo ininterrottamente dal 1981. Un sogno.

A 34 anni incontravo il Diavolo, che per chi non lo sa abita a Pordenone.

A 35 anni ero di nuovo allo stadio Olimpico a festeggiare lo scudetto della Roma: 19 giugno 2001, mi feci pure un bel pianto.

A 36 anni mi compravo un nastrino da ginnastica ritmica di colore rosso e la mia vita cambiava significato. Sempre a 36 anni noleggiavo un camper con Bebbo e Vittorio e visitavo Svezia e Norvegia: non ci sarà più un viaggio così bello.

A 37 anni mi compravo un New Beetle giallo di una bellezza fastidiosa.

A 38 anni, grazie a Mara, volevo entrare a far parte dell’Eta per organizzare un attentato al centro di Barcellona.

A 39 anni rimanevo nove ore in sala operatoria per colpa di una vena varicosa posizionata dietro l’occhio (un polpaccio no, eh?) e mi risvegliavo in terapia intensiva.

A 40 anni aprivo questo blog e pochi mesi dopo mi ritrovavo disoccupato.

A 41 anni tifo ancora per la Roma, mi vesto in un modo che i miei si vergognano di avere un figlio così, ho ancora in mente il piacere e il dolore che quattro donne hanno immesso nella mia vita (una faceva Nuoto di cognome, i genitori di un’altra gestiscono un negozio di formaggi e salumi…), continuo a non mangiare prosciutto e latticini, faccio il Brain Test, gioco con la PlayStation ma solo con la Nigeria e sono geloso della mia parrucca afro. Non mi preoccupo più se i miei prendono le chiavi però fuori di casa ci sono rimasto io almeno una decina di volte. La Moto’ ce l’ho ancora ma resto un motociclista improbabile, le interrogazioni del liceo sono il mio sogno più ricorrente e angosciante. Non ho più paura dell’acqua e neanche l’acqua di me ma la faccia di quello stronzo dell’istruttore di nuoto ce l’ho sempre presente. Come il panico in quelle corsie maledette. Rosolino non lo sarò mai, e neanche chierichetto, e neanche laziale. E neanche uno che vota Berlusconi.

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