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lunedì 5 dicembre 2011

Sempre meglio che lavorare? Sicuri?

Ero riluttante ad affrontare questo argomento ma poi mi sono convinto. Se Luca Giurato conduce tutti i giorni "Uno Mattina" io sono certamente in grado di scrivere un post sul mondo del giornalismo.
Mondo nel quale sono entrato ufficialmente a 35 anni e solo per una serie di circostanze fortuite: "sempre meglio che lavorare" è la risposta standard a chi confessa di fare questo mestiere. Replica banale ma che poi non si discosta tanto dalla realtà: portando il mio esempio, sono stato pagato anche per seguire una squadra italiana che a Istanbul giocava una partita di Coppa. Ricordo che passeggiavo per il ponte sul Bosforo mentre andavo a toccare l'Asia (vale, no, nel conto dei continenti visitati?) e riflettevo: "Mi stanno pagando per visitare Istanbul e per andare a vedere una partita di basket. Il turista e lo spettatore, esattamente quello che fino a pochi mesi fa pagavo io per fare".
Sul fascino del giornalismo hanno scritto in tanti e meglio di me, perciò lascio stare, quello che so è che non cambierei il mio lavoro per nessun altro e questo è un privilegio che non tanti possono vantare. Detto questo, un distinguo è d'obbligo: per sette anni ho lavorato per un settimanale e poi mi si è aperto il mondo dei quotidiani, un mondo che considero ai confini della realtà.
Da qualche giorno, e per il prossimo mese, sto lavorando in uno dei quotidiani sportivi più diffusi d'Italia (un po' come dire... l'esponente principale dello schieramento a me avverso) ed è bene che sappiate come si sviluppa l'esistenza media di un giornalista da quotidiano. Sei giorni su sette egli si reca in redazione alle 15.30 e ivi resta fino alle 23.30, in alternativa questi orari possono scivolare in avanti di un paio di ore, nel caso uno sia di chiusura. Talvolta capita che esca un'agenzia clamorosa alle 22.28, ciò significa che tutto il lavoro scrupolosamente svolto nel pomeriggio verrà spostato nel cestino e da lì eliminato (sei sicuro di voler rimuovere definitivamente gli elementi del cestino? Sì, lo voglio): aldilà degli intoppi che ogni attività professionale contempla vorrei che vi soffermaste sugli orari. Gli orari! Tutti i santi giorni dal primo pomeriggio alla notte: e un cinema? E un concerto? Una pizza con amici che non soffrano di insonnia? Vero è che poi a fronte di sei giorni lavorativi su sette il giornalista di quotidiano matura giorni di ferie che gli permettono di rendere il tutto meno drammatico ma nessuno mi toglie dalla testa che se il quotidiano lo conosci a 25 anni lo puoi metabolizzare (o meglio, ti ci assuefai), se come nel mio caso ti ci imbatti a 40 ne rimani scosso. Come si organizza chi ha moglie e figli e li vede nella migliore delle ipotesi dalle 14.00 alle 15.30? E soprattutto chi non ce li ha, come può procurarseli a meno che non lavorino anch'essi/e nella stessa redazione? Dove sono io ora, ad esempio, sono tutti uomini. Quindi? Eppure, incredibile, sempre al quotidiano nel quale sto lavorando, oltre ad essere stati molto ed accoglienti nei miei confronti, sono tutti sorridenti e di buon umore. A conferma che la macchina infernale li ha definitivamente inghiottiti.

Nella mia contingente condizione di precariato, in questi giorni mi sono interrogato su quale potrebbe essere la mia reazione nel caso in cui un quotidiano mi proponesse un'assunzione. La risposta ancora non c'è ma se chiamasse uno tra "Il Giornale di Caserta" e "Cronache di Napoli" non potrei dire di no. Tutti i giorni almeno trenta notizie di efferata cronaca nera, sullo stile del miglior "Studio Aperto". Per il resto non saprei: a Superbasket andavo a lavorare mediamente alle 10.30 e in pratica non dovevo sottostare a vincoli di orario: se un giorno volevo uscire alle 3 per andare a scrivere a casa non era necessario chiedere alcuna autorizzazione. Ognuno era libero di organizzare il proprio lavoro, a patto di consegnarlo nei tempi stabiliti, non esisteva il panico da chiusura: una qualità della vita inimmaginabile, se accostata a quella di un redattore di quotidiano. Ah, dimenticavo: nei quattro mesi di Dieci ero caposervizio, il che vuol dire che in redazione devi arrivare in tarda mattinata per la riunione col direttore e che l'orario di uscita rimane lo stesso. Un autentico incubo, dal quale fortunatamente sono riuscito a svegliarmi grazie agli editori che non mi hanno mai pagato: il bello è che la decisione di migrare da un settimanale di Bologna a un quotidiano di Milano l'ho presa io, nel pieno possesso delle mie residue facoltà mentali. Ora vado a dormire. Quando domattina aprirò gli occhi guarderò l'orologio e penserò a quante ore mancano prima di andare al giornale.
Ma come cazzo fanno a vivere così? Come?

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