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lunedì 5 dicembre 2011

Giornalisti, brutta razza!

Quando mi sento definire un “uomo di comunicazione” sorrido, perché non so a quale delle due categorie mi sento di appartenere meno. Come quando a Benigni chiesero se si sentisse il Woody Allen italiano e lui rispose che avrebbe preferito essere l’Anna Magnani svizzera.

Sarà che sono diventato giornalista professionista nel 2002, dopo undici anni di vero lavoro quindi, sta di fatto che sulla categoria in generale fatico a spendere parole lusinghiere. E parla uno che in generale non fa fatica a spendere. Ho scritto sempre e solo di sport, di basket nello specifico, e questo vuol dire due cose essenzialmente: non ho mai avuto a che fare con poteri forti e sono stato pagato per scrivere di partite di pallacanestro per vedere le quali avevo pagato io nei precedenti 33 anni della mia esistenza.

Intorno alla categoria cui appartengo ma che non rappresento avverto una sfiducia generalizzata e diffusa, quando non si sfocia nel sarcasmo. Il guaio è che nel 95% dei casi il prodotto giornalistico oggi in Italia viene imbeccato dall’editore/datore di lavoro e sottosta a bieche logiche di mercato: sfondo solo porte aperte, mi rendo conto, ma questo è il motivo per cui a Studio Aperto vanno a intervistare uno che si sta suicidando mentre è ancora in volo dopo essersi buttato dal decimo piano.
Ed ecco perché più o meno sai già cosa leggerai nel momento in cui stai acquistando un quotidiano, perché tutti gli schieramenti sono consolidati e non ammettono diserzioni: anche rimanendo nell’ambito sportivo, che probabilmente è il meno vincolato a certe logiche di potere, la tendenza a scrivere/raccontare con modalità gradite ai potenti è tristemente diffusa. E condivisa dai più, tanto che si astiene dà nell’occhio.

Mi ritengo una persona mediamente codarda e tendenzialmente corruttibile, lontano quindi dall’odore di santità del giornalista tutto di un pezzo, di frontiera. Non sono Marco Travaglio, che peraltro ammiro, eppure in questi anni mi sono sempre sforzato di scrivere esattamente ciò che vedevo. Anzi no, non mi sono sforzato, mi è venuto naturale. Così talvolta ho tradito il tifo per la mia Virtus con articoli di cronaca estremamente severa e in generale ho “raccontato” senza mai assecondare i “bisogni” più o meno impliciti di quelli che contano. Di quelli che potrebbero spendere una parola buona per farti prendere o prolungare un contratto.
Mi venderò un giorno, me lo auguro, ma lo farò per un’offerta congrua. Intanto faccio SOLO gli interessi di chi spende i soldi per leggermi e non ci vuole entrare niente con le mie potenziali manovre di captatio benevolentiae. Non sono un grande giornalista, non lo diventerò certo ora. Però pulito mi ci sento e questo per ora mi basta, il fatto di stare sulle scatole a tanti personaggi influenti della pallacanestro italiana credo sia un riconoscimento e non un’onta.

Giocoforza, poi, un’informazione in modalità “Studioaperto” non può che generare un popolo di mostri: le centinaia di persone appollaiate sui ponti di Roma in attesa che qualcosa di drammatico accadesse, più che ad ammirare la potenza del Tevere incazzato, mi hanno riportato alla mente quelli che pochi giorni dopo il delitto di Cogne andavano fuori dalla casa dei Franzoni a farsi le foto col telefonino. Ricordo che la polizia fu costretta a deviare il traffico perché intorno all’abitazione ancora presidiata dai Ris si era formata una fila incredibile. Il turismo dell’orrore. Il mio orrore per quel turismo. Perfida maestra televisione.

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